CRIOCONSERVAZIONE DEGLI OVOCITI UMANI



Antonio Capalbo, Stefania Romano, Laura Albricci, Benedetta Iussig,

Filippo Ubaldi e Laura Rienzi



AMBITO APPLICATIVO E SOCIALE DELLA CRIOCONSERVAZIONE OVOCITARIA

Le nuove strategie antitumorali hanno portato negli ultimi anni ad un progressivo aumento della sopravvivenza media delle bambine e delle giovani donne affette da neoplasie quali linfomi, leucemie, tumori della mammella ed ovarici, ponendo l’attenzione sugli effetti a lungo termine delle chemioterapie e sulla qualità di vita delle pazienti dopo il trattamento. E’ ben compreso l’effetto dei trattamenti chemio- e radioterapici nel causare, in una percentuale rilevante delle pazienti, alterazioni dei flussi mestruali transitorie o persistenti e, nel lungo periodo, menopausa precoce; tali terapie, inoltre, sono in grado di danneggiare in maniera imprevedibile il patrimonio genetico degli ovociti. L’entità del danno al potenziale riproduttivo è variabile e dipende dall’età della paziente, dal tipo del trattamento oncologico e dalla dimensione iniziale della riserva follicolare ovarica. Sul piano psicologico la prospettiva della perdita del potenziale riproduttivo aumenta lo stress cui sono sottoposte le pazienti, preoccupate dal rischio di un peggioramento della qualità di vita anche a lungo termine. Mentre nel sesso maschile è possibile prevenire una sterilità futura secondaria ai trattamenti chirurgici e/o chemioterapici mediante crioconservazione del liquido seminale, nella donna questo è risultato più difficoltoso e, fino a qualche anno fa, non dava sufficienti garanzie di successo. Oggi, grazie ai progressi nel campo della crioconservazione ovocitaria per quei casi in cui non è controindicata la stimolazione ovarica, la possibilità di preservare la fertilità in pazienti sottoposte a trattamenti oncostatici, non solo costituisce una realtà, ma diventa una prerogativa indispensabile di un sistema sanitario polifunzionale che si faccia carico della qualità della vita futura delle pazienti. Un’altro importante ambito applicativo della crioconservazione degli ovociti allo scopo di preservare la fertilità è rappresentata dalle pazienti con riferita storia familiare di esaurimento ovarico precoce in cui la madre è andata in menopausa prima dei 42 anni e che sono ad aumentato rischio di esaurimento precoce della funzione ovarica, che può sopravvenire anche in giovanissima età. I recenti progressi nell’identificazione di condizioni eziologiche monogeniche (per es. bmp15 responsabile del circa 3% dei casi) e fattori importanti di suscettibilità (stato di premutazione del gene fmr1) correlati e determinanti l’insufficienza ovarica precoce e le ancor maggiori aspettative diagnostiche nel campo della genetica e citogenetica molecolare candidano fortemente la crioconservazione ovocitaria come trattamento primario del fenotipo ovarico prima che questo si manifesti.

La crioconservazione degli ovociti umani rappresenta, inoltre, un’importante alternativa per il trattamento stesso dell’infertilità umana, permettendo di affrontare con successo problemi legali, etici e morali legati alla crioconservazione embrionale. Contestualmente la disponibilità di un efficiente programma di crioconservazione ovocitaria permette di esplorare nuove applicazioni tecno scientifiche che prevedano lo stoccaggio gametico temporaneo, quali per esempio la diagnosi genetica pre-concepimento su corpo polare. Altre applicazioni riguardano la possibilità di istituire con efficacia programmi di ovodonazione,dove concepibile e,da un punto di vista estremamente pratico,rappresentato da quei casi, seppur rari, in cui al momento dell’inseminazione non siano disponibili gameti maschili per qualsiasi motivo. In ultima analisi la disponibilità anche per le donne di un mezzo altrettanto valido di preservazione della loro fertilità può essere inteso come un moderno concetto di equità sociale tecno scientifico della sfera riproduttiva umana.


STORIA E CLASSIFICAZIONE DELLE STRATEGIE DI CRIOCONSERVAZIONE OVOCITARIA

Come spesso accaduto nella storia della scienza, prima dell’avvento delle grandi tecnologie che hanno dato vita al processo scientifico cumulativo, episodi equivoci e fortuiti sono stati responsabili delle maggiori acquisizioni conoscitive e applicative in ambito tecno-scientifico. Si narra come anche la scoperta del glicerolo, primo composto identificato come crioprotettore in grado di preservare i substrati biologici alle basse temperature e che di fatto ha sancito la nascita della criobiologia come scienza sia avvenuta occasionalmente nel 1948 da un gruppo di ricercatori inglesi C. Polge, A.U. Smith, and A.S. Parkes nel tentativo di congelare spermatozoi di pollame. Utilizzando una soluzione a base di glicerolo, contrassegnata erroneamente come levulosio, ottennero una buona sopravvivenza dopo congelamento a -70°C. Ovviamente non furono più in grado di replicare l’esperimento utilizzando lo zucchero come unico crioprotettore. “Il caso aiuta le menti preparate”(JJ Monod) così questi studiosi hanno, poi, avuto il merito di identificare la sostanza che esplicasse la funzione preservante contenuta nella miscela e di ottimizzarne gli effetti protettivi. E’ interessante notare come nel lavoro pubblicato che descrisse questa fondamentale osservazione nel 1951 “Revival of Spermatozoa after Vitrification and Dehydration at Low Temperatures” la metodologia venne interpretata dagli autori come vetrificazione, che non rispecchia propriamente quello che oggi noi intendiamo. Il metodo da loro utilizzato fu piuttosto del congelamento all’equilibrio o lento che, in principio, è basato sulla deidratazione e permabilizzazione degli agenti crioprotettori graduale mediante l’uso di velocità di raffreddamento modeste e controllate e dalla cristalliazzione della frazione residua di acqua intracellulare ed extracellulare. L’efficacia ottimale di queste strategie si ottiene quando la velocità di raffreddamento stabilisce un equilibrio tra l’acqua persa dalla cellula (disidratazione) e il tasso di l’incorporazione di questa nel cristallo nascente di ghiaccio extracellulare.

A queste si contrappongono una serie di strategie definite complessivamente come procedure di crioconservazione non in equilibrio o veloci, alle quali appartiene la vitrificazione, che differiscono sostanzialmente dai protocolli di congelamento lento in quanto la deidratazione e la permeabilizzazione dei crioprotettori avvengono completamente prima che la fase di raffreddamento cominci, e che questa avvenga in un unico step direttamente da temperature >0°C e fino al punto criogenico di stoccaggio < -130°C. A loro volta le diverse metodiche di crioconservazioni veloci possono essere distinte in base alla induzione o meno della formazione di ghiaccio intra ed extracellulare, dove le tecniche non vitrificanti sono caratterizzate dal fenomeno della cristallizzazione in entrambe le fasi di raffreddamento e riscaldamento. A seconda del tipo di miscela e delle condizioni procedurali, soluzioni possono vitrificare durante il raffreddamento ma cristallizzare durante il riscaldamento, e in questo caso si parla di de-vitrificazione. Quindi procedure che portano alla formazione di ghiaccio a qualsiasi stadio e fase del raffreddamento e riscaldamento non sono procedure di vitrificazione propriamente dette, ma possono essere definite globalmente come strategie di crioconservazione veloci (J.M.Shaw and G.M.Jones 2003).

Procedure che riescono invece a supportare lo stato vetroso durante tutta la fase di raffreddamento e riscaldamento, prevenendo completamente la formazione di cristalli di ghiaccio intra ed extracellulare sono procedure di vitrificazione propriamente dette. Questa viene, quindi, definita come una transizione di stato di secondo livello (IUPAC Compendium of Chemical Terminology, 1997, 66, 583), in quando non vi è formazione di calore latente dovuto alla cristallizzazione, in cui la solidificazione non è caratterizzata da una riorganizzazione molecolare e ionica e in cu lo stato di solido amorfo risultante può essere paragonato a quello di un liquido super raffreddato molto viscoso. La vitrificazione di un substrato cellulare è un concetto valutabile solo in termini probabilistici e può essere ottenuta addizionando grandi quantità nel mezzo di crioprotettori - penetranti e non penetranti-, che hanno la funzione di aumentare la viscosità e prevenire i danni causati dalla disidratazione, e raggiungendo velocità elevatissime di raffreddamento (immersione diretta in azoto liquido circa 20000°C/min), tali per cui venga superato il punto di fusione dell’acqua senza che questa cristallizzi. Contestualmente è opportuno rispettare scrupolosamente la terminologia associata alle varie strategie di crioconservazione ovocitaria ed embrionale in PMA: raffreddamento e riscaldamento indicano solo cambiamenti della temperatura e possono essere indifferentemente usati sia per le strategie di congelamento lento che veloce, a differenza di congelamento e scongelamento che sono invece unicamente descrittive delle metodiche non vitrificanti.

La vitrificazione può quindi essere considerata in criobiologia un approccio radicale, in quanto la maggior sorgente di danno, la formazione di cristalli di ghiaccio, è completamente eliminata. Contestualmente negli ultimi anni, la vitrificazione è emersa come una possibile e più efficace soluzione al problema della crioconservazione di ovociti, raggiungendo nei casi di maggiore successo sopravvivenza prossima all’unità e percentuali di fecondazione e sviluppo pre- e postimpianto non dissimili da quelle ottenute con ovociti freschi (Cobo et al., 2008; Rienzi et al., 2010). Considerata, inoltre, la sua recente introduzione su larga scala nella pratica della PMA, la trattazione della crioconservazione ovocitaria in questo articolo sarà incentrata principalmente sulla metodica della vitrificazine e sulla sua efficacia in termini clinici.


PRINCIPI BIOFISICI DELLA VITRIFICAZIONE OVOCITARIA

Anche se di recente introduzione nella pratica della Procreazione Medicalmente Assistita, la vitrificazione non è assolutamente un concetto di nuova concezione nella storia della criobiologia; il primo ad intuire che cellule e organismi viventi potessero essere portati a temperature estreme sotto lo 0°C senza la formazione del ghiaccio fu Basile J. Luyet (1897-1974) che può essere oggi considerato il padre della moderna criobiologia e della crionica. Mosso dalla profonda aspirazione di poter ottenere una sospensione criogenica della vita arrestando e riavviando la vita degli organismi viventi, condusse studi pionieristici su modelli unicellulari e tessuti animali, proseguiti poi con successo da Rall e Fahy che nel 1987 ottennero la prima nascita di un topo da embrioni vitrificati. Questo successo fu accolto dalla comunità scientifica con grande interesse, descritto come “riscoperta della vitrificazione” (Ashwood-Smith,1986) e riportato come potenziale alternativa al congelamento lento nella riproduzione umana, a testimonianza del fatto che questa non è una nuova tecnica.

La velocità di raffreddamento/riscaldamento è un parametro che condiziona fortemente la probabilità di riuscita di una strategia di vitrificazione, prevenendo gli eventi di nucleazione che sono alla base della formazione del ghiaccio. La nucleazione è un evento critico che deve essere completamente evitato durante il processo di vitrificazione perché può portare istantaneamente alla crescita di un cristallo di ghiaccio.

Idealmente qualsiasi materiale può vitrificare se raffreddato abbastanza velocemente da prevenirne l’organizzazione in strutture cristalline; anche un piccolo volume di acqua pura può vitrificare se raffreddata ad una velocità approssimativa di 107°C/s fino alla temperatura di -173°C ottenendo ghiaccio amorfo; tuttavia queste sono condizioni limite non raggiungibili facilmente in un laboratorio di PMA. A tal proposito recentemente è stata ottenuta la vitrificazione di spermatozoi con buona sopravvivenza senza utilizzo di crioprotettori (Isaschenko et al., 2004). Questo è stato possibile grazie alla straordinaria conducibilità idraulica della membrana degli spermatozoi e alle velocità di raffreddamento/riscaldamento raggiunte immergendo il campione, dopo disidratazione, direttamente in azoto liquido. Tuttavia questo sembra ancora impossibile per altri substrati cellulari, compresi ovociti ed embrioni.

Oltre alla velocità di raffreddamento/riscaldamento, altri due fattori, viscosità e volume del campione, influenzano indipendentemente la probabilità di successo di una strategia di vitrificazione. Queste tre variabili possono essere relazionate come segue:


Probabilità di vitrificazione = tasso di raffreddamento riscaldamento X viscosità

Volume


Al livello macroscopico dunque, il parametro fisico che controlla la vitrificazione, ovvero il rallentamento delle variabili dinamiche microscopiche, e’ la viscosità. In generale, nel processo di vitrificazione, la viscosità aumenta di molti ordini di grandezza, passando da circa 10-4 poise, valore caratteristico dello stato liquido alle alte temperature, a circa 1013 poise, valore convenzionalmente scelto come caratteristico dello stato vetroso (un aumento di 1017 volte, dunque). Aumentando la viscosità di una soluzione acquosa, tramite aggiunta di sali o soluti organici, è possibile deprimere la temperatura di congelamento o di melting (Tm) della miscela eutettica formata. Un eutettico, o miscela eutettica o azeotropo eterogeneo, è una miscela di sostanze il cui punto di fusione è più basso di quello delle singole sostanze che la compongono (dal greco eu = buono, facile; tettico = da fondere). Teoricamente non esistono limiti a quanto la temperatura di congelamento può essere depressa dall’aggiunta di soluti, con il risultato che la soluzione può raggiungere direttamente la temperatura di transizione vetrosa senza congelare. Ovviamente in criobiologia questo è un metodo impraticabile per la tossicità dei crioprotettori, e in generale dei soluti, alle alte concentrazioni, e che, anzi, deve essere minimizzato.

Intuitivamente, la diminuzione del volume del campione da sottoporre a crioconservazione diminuisce la quantità di liquido da raffreddare e la probabilità di formazione di ghiaccio nel mezzo extracellulare. Parallelamente minimizzando il volume a parità delle altre condizioni sperimentali si aumenta il tasso di raffreddamento/riscaldamento.

La temperatura di transizione vetrosa, solitamente indicata col simbolo Tg, rappresenta il valore di temperatura al di sotto della quale un materiale amorfo si comporta da solido vetroso. Il prodotto della vitrificazione è quindi un solido amorfo, un solido che manca di reticolo cristallino, cioè di un qualsiasi tipo di ordine a lungo raggio delle posizioni degli atomi. Il raffreddamento repentino riduce la mobilità delle molecole del materiale prima che possano stabilizzarsi termo dinamicamente in una condizione ordinata. Questo comportamento è dovuto al fatto che anche i movimenti su scala molecolare, cioè transazionali, rotazionali e vibrazionali subiscono un brusco rallentamento. Le molecole non hanno dunque il tempo (cinetica) per cambiare posizione, ed ordinarsi in un reticolo cristallino stabile da un punto di vista termodinamico. Come risultato lo stato vetroso rispecchia l’organizzazione molecolare del liquido da cui è derivato, mantenendo lo stesso disordine topologico tipico dei fluidi, e il processo non è accompagnato da diminuzione di entropia come per la tradizionale transizione di fase.

Oltre a porne le basi metodologiche, ottimizzate e applicate poi con successo nel campo della PMA dai suoi successori, Luyet comprese per primo e descrisse perfettamente agli inizi dello scorso secolo lo stato fisico di un solido amorfo, intravedendo in questo, come spiegato durante un’intervista ad un giornalista, l’unico modo per ottenere la sospensione criogenica della vita: “Living matter can survive freezing, but only if the molecules are not ordered, but solidified where they are ... in disordered or uncrystallized form”.


ASPETTI METODOLOGICI DELLA VITRIFICAZIONE OVOCITARIA

Metodologicamente, lo stoccaggio, riscaldamento e reidratazione, differiscono solo parzialmente tra le procedure di vitrificazione e congelamento lento; le maggiori peculiarità risiedono principalmente nelle prime fasi di aggiunta dei crioprotettori e nella fase di raffreddamento fino alla temperatura di stoccaggio.

L’arte della vitrificazione nella PMA è quella di creare un sistema pratico per ottimizzare velocità di raffreddamento e riscaldamento e di identificare le minime concentrazioni dei crioprotettori meno tossici per la cellula ovocitaria utili al fine di poter garantire le maggiori chance di ottenimento del processo di vitrificazione.

Come detto soluzioni con elevate concentrazioni di crioprotettori teoreticamente possono vitrificare anche con modeste velocità di raffreddamento, tuttavia in criobiologia riproduttiva questa possibilità non è stata possibile esplorarla in quanto tutti i crioprotettori comunemente impiegati risultano, anche se con grado variabile, tossici e possono avere anche un effetto osmotico negativo sulle cellule ovocitarie. In generale la vitrificazione degli ovociti è ottenuta utilizzando gli stessi crioprotettori applicati e decritti precedentemente nei metodi di congelamento lento, tuttavia la composizione e posologia sono sostanzialmente differenti. In conseguenza alla maggiore concentrazione necessaria, la ricerca nella prima decade di studi sulla vitrificazione in campo della medicina riproduttiva si è focalizzata sulla minimizzazione dell’effetto tossico e del danno osmotico. Vari approcci sono stati sperimentati, primo fra tutti la scelta del crioprotettore meno tossico e più permeabile per la struttura ovocitaria. In questo contesto l’etilenglicole è diventato un composto standard di tutti i protocolli di vitrificazione correntemente utilizzati. Lo step successivo che ha contribuito ad aumentare l’efficienza della metodica è stato l’uso combinato di più crioprotettori (almeno due, più frequentemente tre) al fine di diminuire la tossicità specifica individuale mantenendo inalterata la concentrazione totale nella soluzione. Almeno uno di questi permeabile la cellula e uno non penetranti. Contestualmente propandiolo, acetamide, glicerolo e DMSO sono stati testati in varie combinazioni (Kasai and Mukaida, 2004); etilenglicole e DMSO sono risultati essere la scelta più appropriata nel garantire la maggiore efficacia e minor tossicità della metodica. Inoltre, secondo alcuni autori, la permeabilità della miscela risulta maggiore di quella dei componenti individuali . Per quanto riguarda i crioprotettori non permeabili, mono e disaccaridi quali saccarosio, trealosio, glucosio e galattosio sono i candidati primari. Tra questi il saccarosio è diventato un componente standard della soluzione di vitrificazione tanto quanto l’etilenglicole . Un’altra strategia per minimizzare l’effetto tossico è l’aggiunta graduale del crioprotettore e l’uso di questi a basse temprature (circa 4°C; Rall, 1987). Mentre la prima è diventata una figura costante di tutte le attuali strategie di vitrificazione, la seconda è stata sostanzialmente abbandonata nelle nuove tecnologie principalmente per difficoltà tecniche e per il potenziale rischio (anche se mai provato) di aumentare il chilling injury sotto queste condizioni. L’addizione multistep del crioprotettore viene generalmente eseguita tramite esposizione degli ovociti ad una prima soluzione con concentrazioni che contengono circa il 20-50% della concentrazione finale dei crioprotettori. Inoltre risulta importantissimo in questo contesto il tempo di equilibratura che si decide di adottare nelle due soluzioni: Mentre i primi metodi erano focalizzati principalmente su una esposizione più breve possibile (prima incubazione 1-3 min e seconda 1-2s) oggi la tendenza è ad avere una lunga preincubazione (5-15 min) nella prima soluzione consistentemente diluita dei crioprotettori seguita da circa un minuto di incubazione nella soluzione finale (Kuwayama et al., 2005 a,b). Questo approccio, particolarmente per la cellula ovocitaria, consente di ottenere una maggiore protezione globale della cellula, anche se può risultare leggermente aumentata l’effetto tossico del crioprotettore. Nella blastocisti questo approccio ha migliorato notevolmente la vitalità e competenza evolutiva dell’embrioni post-crioconservazione. La possibilità di aumentare il tasso di raffreddamento consente di ridurre la richiesta di crioprotettore per ottenere la vitrificazione del campione. Considerando il setting di un laboratorio di PMA, il modo più semplice per massimizzare le velocità di raffreddamento e riscaldamento è quello di minimizzare il volume della soluzione intorno all’ovocita da crioconservare. Inoltre il minor volume conferisce l’ulteriore vantaggio di ridurre il rischio di formazione di ghiaccio eterogenea (Rall, 1987). Quest’ultimo aspetto ha, ovviamente, necessitato del perfezionamento tecnico di supporti che consentissero di minimizzare il volume di caricamento degli ovociti. I primi esperimenti di vitrificazione sono stati eseguiti in contenitori (vessels) tradizionali da crioconservazione, cioè del volume di 0.25ml. Questi supporti non erano stati progettati per lo scopo specifico in quanto richiedono il caricamento di grandi quantità di soluzione per garantirne la sicurezza. Contestualmente, il tasso di raffreddamento e riscaldamento massimo raggiungibile teoricamente, risultano pesantemente limitati (approssimativamente 2500°C/min per le straws e anche meno per le cryovials. Questo porta sia al momento dell’immersione in azoto liquido sia al riscaldamento nel bagno di acqua a generare pressione estreme all’interno della soluzione che originano frequentemente nel collasso o esplosione dello stesso. Anche quando questo non avviene, è spesso probabile il danno da frattura che origina dall’attrito tra le porzioni parzialmente solidificate della soluzione sotto cambiamenti estremi della pressione. Successivamente sono stati ottimizzate procedure e supporti in grado di sfruttare pienamente l’enorme vantaggio del cosiddetto small-volume-direct contact approach, primo tra i quali l’Open-Pulled Straw (OPS; Vajta;1998) seguito da una serie di altri supporti criologici, tra i quali Cryoloop (Lane 1999) e hemi-straw system (HSS Vanderzwalmen et al. 2000) e recentemente Cryotop (Kuwayama 2000; 2005). Spesso questi sistemi sono stati sviluppati ed applicati da gruppi di studio individuali rendendo difficile le valutazioni comparative. Il metodo correntemente più utilizzato e che sembra garantire ad oggi migliori risultati e riproducibilità è quello descrittto da Kuwayama nel 2005. Tale procedura viene effettuata a temperatura ambiente (25-27°C). La soluzione di equilibrazione è composta dal 7.5% di EG e 7.5% di DMSO mentre la soluzione di vitrificazione da 15% EG, 15%DMSO e 0.5 M saccarosio. Per ottenere una equilibrazione il più graduale possibile gli ovociti vengono incubati in soluzioni con concentrazioni crescenti della soluzione di equilibrazione per 10-12 minuti complessivamente. Gli ovociti sono poi trasferiti nella soluzione di vitrificazione per 1 minuto e caricati sulla cryotop facendo ben attenzione ad aspirare il maggior volume possibile di soluzione intorno agli ovociti caricati, lasciando solo un piccolo layer intorno a questi. Infine le cryotops vengono immerse nel contenitore di azoto liquido. Le soluzioni per il warming sono le seguenti: 1 M saccarosio; 0,5M saccarosio; 0M saccarosio. La prima fase viene effettuata immergendo la cryotop in 1ml della prima soluzione preriscaldata a 37 °C. Successivamente gli ovociti vengono trasferiti nella seconda soluzione per 3 minuti a temperatura ambiente e poi lavati per 6 minuti nella terza soluzione prima di rimetterli in coltura a 37°C.

Da un punto di vista operativo, inoltre, indipendentemente dalla scelta di applicare il congelamento lento o la vitrificazione come approccio per la crioconservazione di ovociti, è indispensabile adottare un rigoroso sistema di gestione per il controllo di fattori tecnici (tipo di protocollo, mezzi di conservazione) e procedurali (tempi di coltura prima e dopo la crioconservazione, manipolazione degli ovociti, esperienza dell’operatore) che potrebbero influenzare l’efficienza della metodica.

In termini di tempi operativi e mobilizzazione di risorse, la crioconservazione rappresenta ormai una parte importante dell’attività del laboratorio di embriologia. Pertanto, alla manipolazione e soprattutto allo stoccaggio degli ovociti (o degli embrioni) dovrebbe essere dedicata una specifica area di lavoro,nonché uno specifico programma di assicurazione della qualità.


POSSIBILI DANNI ALL’OVOCITA DOVUTI AL PROCESSO DI VITRIFICAZIONE

Trascurando rare eccezioni, la temperatura corporea nei mammiferi è un processo strettamente regolato e il raffreddamento degli ovociti a temperature inferiori a quelle fisiologiche è una condizione ampiamente sconosciuta, per la quale non sono evoluti meccanismi adattativi e che necessita di supporto esterno. Danni cellulari possono occorrere a qualsiasi fase del processo di crioconservazione e comprenderne i meccanismi e le ragioni del danno come dell’azione crioprotettrice degli ACP resta, ad oggi, difficoltoso se non elusivo, rischiando di trarre conclusioni erronee a causa degli inadeguati metodi di investigazione. Analisi funzionali e osservazioni morfologiche durante specifiche fasi del processo di raffreddamento, specialmente a temperature inferiori allo 0°C, sono sostanzialmente proibitive, lasciando come unica alternativa lo studio degli ACP senza fase di raffreddamento e riscaldamento o conclusioni retrospettive basate sull’analisi dopo scongelamento. Considerando queste incertezze non è sorprendente che quasi tutte le strategie di crioconservazione cellulare si siano evolute e progrediscono prettamente su base empirica.

In generale, durante il processo di raffreddamento possiamo distinguere tre tipi di danni a seconda della temperatura in cui si trovano le cellule ovocitarie: a temperature relativamente elevate, tra +15 e -5 °C, il cosiddetto chilling injury o danno da raffreddamento, attribuibile principalmente alla transizione di fase lipidica a livello della membrana citoplasmatica e alla disorganizzazione delle strutture micro tubulari citoplasmatiche compreso il fuso meiotico (Ghetler et al.,2005). Mentre quest’ultimo può essere reversibile il primo è irreversibile e causa primaria di degenerazione cellulare in seguito a crioconservazione. Tra -5 e – 80°C avviene il cosiddetto danno da congelamento, dove la cristallizzazione dell’acqua intracellulare è la maggiore sorgente di danno, mentre da temperature inferiori fino al punto criogenico di stoccaggio sono possibili fratture a livello citoplasmatico o della zona pellucida (Rall and Meyer, 1989). La transizione a temperature inferiori ai -150°C e il successivo stoccaggio è, verosimilmente, il momento meno pericoloso di tutto il processo di crioconservazione, dove il rischio maggiore è rappresentato dal riscaldamento accidentale del campione biologico. A differenza delle strategie di congelamento lento, dove danni cellulari possono occorrere a qualsiasi fase del processo di crioconservazione, nelle procedure di vitrificazione il maggior rischio è rappresentato dalla tossicità,anche se non ancora ben definita, dei crioprotettori con le maggiori quantità impiegate e che vengono equilibrati a temperatura ambiente ed al plausibile shock osmotico che ne consegue. Oltre all’enorme vantaggio della assenza di formazione di ghiaccio intra ed extracellulare, probabilmente uno dei maggiori benefici delle strategie di vitrificazione è rappresentato dalla tempistica procedurale che consente di minimizzare l’esposizione ad un ambiente di coltura sfavorevole e l’aging ovocitario preservando la competenza evolutiva ovocitaria. Un ulteriore vantaggio delle procedure di vitrificazione è dato dalla velocissima transizione nel range termico del chilling injury che ne previene, verosimilmente, i danni citoscheletrici associati a queste temperature rendendo la vitrificazione un approccio che meglio preserva la fisiologia ovocitaria (Gardner et al.,2007).

Esistono, tuttavia, meccanismi di danno cellulare parzialmente compresi che hanno permesso migliorie procedurali e ottimizzazione della pratica clinicia, tra i quali una buona comprensione dell’interazione tra ACP e cellula ovocitaria e lo studio sistematico e funzionale del comportamento del fuso meiotico durante le varie fasi delle diverse strategie di crioconservazione. In questo contesto il fuso meiotico ovocitario sembra essere compatibile con le strategie di crioconservazione (Rienzi et al.,2004; Ciotti et al.,2008; Cobo et al.,2008) per quanto riguarda la ripolimerizzazione, l’organizzazione bipolare e la distribuzione equatoriale dei cromosomi, anche se, in una frazione ancora difficilmente quantificabile, l’allineamento possa essere compromesso probabilmente in misura variabile tra le diverse procedure (Coticchio et al.,in press).

Comunque un diretto beneficio dei vari studi sul comportamento del fuso meiotico è stato sicuramente l’indicazione clinica a ridurre i tempi di coltura post warming prima dell’inseminazione e conseguentemente l’aging ovocitario (Bromfield et al., 2009; Bianchi et al2005; Rienzi et al.,2004).

Nel contesto delle cellule riproduttive, l’ovocita è risultato indubbiamente il substrato biologico più refrattario alle procedure di crioconservazione in generale. Questa oggettiva difficoltà risiede in diversi fondamenti della peculiare costituzione fisiologica dell’ovocita, in particolare dalla ridotta permeabilità della membrana citoplasmatica sia all’acqua che agli ACP penetranti dovuta all’assenza di specifiche proteine di membrana della famiglia delle acquaporine in grado di facilitarne e ottimizzarne il trasporto trans membrana, alla elevata sensibilità alle alterazioni biofisiche a cui è soggetta la componente citoplasmatica, in particolare il fuso meiotico, ed alla possibile compromissione di specializzati organelli citoplasmatici di natura ubiquitaria o peculiari della funzione ovocitaria,quali mitocondri, granuli corticali e sistemi di accoppiamento recettoriale per il signaling del calcio. Un’altra elemento di sensibilità specifico degli ovociti e plausibilmente responsabile della compromissione della competenza allo sviluppo pre e post impianto può essere rappresentato dagli mRNA poliadenilati e proteine tradotte ma non funzionalmente attive, che costituiscono i determinanti per l’espletamento del cosiddetto Programma Materno dell’Embriogenesi, responsabile di guidare le prime divisioni embrionali fino all’attivazione del “nuovo” genoma diploide. Un altro maggiore ostacolo alla crioconservazione ovocitaria è stato sicuramente l’assenza di modelli animali appropriati, e la minore suscettibilità ai danni da congelamento degli ovociti incubati per più ore o per 1 giorno rispetto a quelli da poco prelevati. Questo problema, ha, per esempio, limitato l’utilità di ovociti al giorno 1 che non si erano fecondati.


RISULTATI CLINICI DELLA VITRIFICAZIONE OVOCITARIA:

È più difficile distruggere il pregiudizio che l'atomo” Albert Einstein

In qualsiasi ambito medico-scientifico, l’efficacia di una tecnica è stimabile a patto che i risultati siano sufficientemente ampi e sistematicamente riproducibili, circostanze che oggi possono ritenersi soddisfatte in campo di criobiologia riproduttiva, anche per la metodica della vitrificazione. Nonostante una continua resistenza ed una impropria definizione di “nuova metodica” la vitrificazione è ampiamente entrata nella pratica clinica della medicina della riproduzione diventando spesso la strategia di elezione per crioconservare embrioni ed ovociti. Per i primi è ampiamente riportata la superiorità in termini di sopravvivenza e vitalità (Balaban et al., 2008; Loutradi et al., 2008).

Per quanto riguarda gli ovociti esiste ancora una oggettiva difficoltà nell’ottenere una stima precisa dei risultati clinici della vitrificazione in termini generali derivante principalmente dalle diverse, spesso individuali, metodiche e strategie utilizzate e dalla recente introduzione sistematica su ampia scala nella pratica clinica della crioconservazione ovocitaria. Inoltre questi fenomeni sono anche fortemente influenzati dal setting e dall’efficienza dello specifico laboratorio. Nella letteratura recente le percentuali di sopravvivenza ovocitaria riportati dopo crioconservazione mediante vitrificazione variano tra l’84% ed il 99%, con una media del 95% dall’analisi di 1683 ovociti crioconservati (1275/1683), 90% con i sistemi che utilizzano Cryotop e Cryoloop (Tabella 1).

Risulta altrettanto difficile valutare l’efficacia della vitrificazione in termini di qualità e vitalità embrionale, intesa come capacità di impianto e di originare in una gravidanza a termine, sia per l’eterogeneità della metodica che per l’assenza di studi prospettici randomizzati con ampio campionamento che comparino i risultati del fresco contro gli ovociti vitrificati.

Da una analisi degli studi riportati fino ad oggi la fertilizzazione media è compresa tra valori 70-80%. La capacità di divisione in seconda giornata varia tra il 65% e il 98% e la capacità di formare blastocisti tra il 50-100%. L’impianto (6.4-61%) e gravidanza clinica (15.4-100%) variano altrettanto considerevolmente tra gli studi.

L’unico metodo per controllare tutte queste variabili è l’utilizzo di sistemi di studio randomizzati con un disegno prospettico, possibilmente con pazienti equiparabili per tutti i fattori che possano influenzare l’outcome della metodica. Contestualmente solo due studi fino ad oggi soddisfano pienamente questi criteri, includendo l’analisi di ovociti derivanti dalla stessa coorte ovocitaria per ogni paziente. Il primo, in ordine cronologico, pubblicato da Cobo e colleghi in cui è stato utilizzato il modello di ovodonazione per studiare il comportamento di ovociti dopo vitrificazione. E il secondo di Rienzi e colleghi in cui ovociti della stessa paziente sono stati randomizzati dopo decumulazione per ricevere rispettivamente ICSI o crioconservazione mediante vitrificazione secondo il modello proposto da Kuwayama. Da quest’ultimo studio abbiamo potuto concludere la non inferiorità degli ovociti crioconservati mediante vitrificazione rispetto a quelli trattati in fresco relativamente al tasso di fertilizzazione. In questo studio inoltre la sopravvivenza ovocitaria allo scongelamento è risultata essere del 96.7% e lo sviluppo embrionale è risultato statisticamente non significativo per tutti i parametri analizzati (Tabella2).

L’idea alla base del nostro lavoro è stata quella di minimizzare lo stress aggiuntivo a cui generalmente sono esposti gli ovociti selezionati per la crioconservazione. E’ plausibile pensare che, non il processo di crioconservazione in se, ma l’esposizione prolungato ad un ambiante di coltura sub ottimale e l’invecchiamento ovocitario influiscano negativamente sulla competenza allo sviluppo, spiegando parzialmente la negatività dei risultati riportati ad oggi sul congelamento degli ovociti. Contestualmente la procedura di vitrificazione è stata effettuata immediatamente dopo la decumulazione sempre tra le 37-40 ore dopo la somministrazione di hCG. Analogamente l’inseminazione degli ovociti è stata sempre eseguita alla seconda ora dopo il riscaldamento, tempo minimo necessario per permettere all’apparato citoplasmatico, in particolare al fuso meiotico, di ricostituirsi, riducendo da 2 a 3 il periodo di coltura in vitro. Infatti è stato osservato come la ripolarizzazione del fuso meiotico risulti più veloce dopo vitrificazione (Larman et al., 2007; Ciotti et al.,2008) a differenza del congelamento lento nel quale sono necessarie circa 3 ore. A tal proposito è stato recentemente suggerito da Bromfield e colleghi che il fuso meiotico ha un massimo di polimerizzazione e allineamento cromosomico ad un’ora dopo riscaldamento, suggerendo la possibilità di anticipare maggiormente il momento dell’inseminazione di ovociti vitrificati (Bromfield et al., 2009). Inoltre per minimizzare l’esposizione ad un ambiente di coltura sub ottimale, la decumulazione e la selezione degli ovociti randomizzati al trattamento di crioconservazione è stata eseguita in una camera con controllo atmosferico e della temperatura (L-323, Ksystems). Grazie a questi accorgimenti, con l’utilizzo di ovociti provenienti dalla stessa corte ovocitaria i due trattamenti differiscono unicamente per il processo di crioconservazione e 2 ore di coltura post riscaldamento, rendendo la comparazione oggettiva. In accordo, dall’analisi dei nostri risultati, lo sviluppo embrionale in seconda giornata non è risultato compromesso dalla procedura di vitrificazione e la qualità embrionale completamente sovrapponibile ai non trattati (score embrionale medio: Freschi 1.39+1.40 e Vitrificati 1.48+1.47, P=0.68). Queste osservazioni sono poi state confermate dall’analisi dei promettenti risultati clinici delle gravidanze ottenute dagli ovociti vitrificati: abbiamo infatti osservato il 30% di gravidanza clinica evolutiva e il 17% di tasso di impianto evolutivo, risultati abbondantemente comparabili con i cicli in fresco di una popolazione infertile. In altri termini il tasso di impianto evolutivo per ovocita vitrificato è risultato essere del 12,9% (16/124).

Anche il follow-up ostetrico è fortemente limitato, non solo dai numeri, ma anche dalla scarsità delle informazioni riferite dagli autori e, nuovamente, dall’assenza di studi prospettici su ampia scala. Una recente meta-analisi della letteratura dal 1984 ad oggi, ha potuto identificare informazioni in merito solo per 148 bambini nati da congelamento lento e 221 da vitrificazione ovocitaria (Wennerholm et al.,Human Reproduction 2009). Per quanto riguarda la vitrificazione, dall’analisi di questi dati non sono emerse differenze, anche in termini di malformazioni congenite (Chian RC., 2008), tuttavia i dati a disposizione sono ancora fortemente limitati per legittimare la sicurezza della metodica. Questo declama l’urgente necessità di studi prospettici controllati di follow-up a lungo termine su bambini nati da ovociti (come anche da embrioni) crioconservati in generale.

Considerando l’assoluta necessità, almeno ad oggi, del diretto contatto con azoto liquido potenzialmente infetto, è opportuno fare alcune considerazioni in termini di biosicurezza, in particolare per le procedure che utilizzano un sistema “aperto”, quali la vitrificazione. La maggior parte degli agenti infettivi è in grado di sopravvivere alle temperature normalmente applicate in campo della criobiologia; in particolare ACP e altri componenti dei mezzi di coltura (e.g. milk, serum or serum albumin, sucrose, sorbitol and other sugars) sono in grado di proteggere anche virus e batteri dalle basse temperature; inoltre la tossicità degli APC è di gran lunga minore, anche ad alte concentrazioni (per es. 45% di DMSO), per i comuni patogeni umani rispetto alle cellule eucariote e in particolare ai gameti ed embrioni, anche se la crioconservazione, generalmente, riduce la concentrazione degli agenti patogeni nel mezzo di coltura. In questo contesto e in seguito alle politiche adottate dalla Comunità Europea, anche se ad oggi non sono mai state riportate nell’uomo infezioni e cross-contaminazioni dal trasferimento embrionale da ovociti crioconservati, è importante un impegno della comunità scientifica nella progettazione di strategie di vitrificazione che evitino il diretto contatto con l’azoto liquido mantenendo inalterata l’efficacia della metodica.

Bibliografia:


Balaban B, Urman B, Ata B, Isiklar A, Larman MG, Hamilton R, Gardner DK. A randomized controlled study of human Day 3 embryo cryopreservation by slow freezing or vitrification: vitrification is associated with higher survival, metabolism and blastocyst formation. Hum Reprod. 2008 Sep;23(9):1976-82

GENERA, Medicina della Riproduzione, Clinica Valle Giulia Roma



Tabella1



Autore

Sopravvivenza

(%)

Fertilizzazione

(%)

Gravidanza evolutiva (%)


Chian et al., 2005

169/180 (94)

126/169 (75)

7/15 (47)


Lucena et al., 2006

120/143 (84)

104/120 (87)

13/23 (57)


Kuwayama et al., 2005

58/64 (91)

52/58 (90)

12/29 (41)


Cobo et al., 2008

224/231 (97)

182/224 (76)

11/23 (48)


Yoon et al., 2007

302/364 (85)

168/218 (77)

13/30 (43,3)


















Tabella 2








Rienzi et al., 2010 Cobo et al., 2008







Freschi

Vitrificati

Freschi

Vitrificati

Sopravvivenza (%)

----

96.7

----

97,7

Fertilizzazione (%)

83.34

79,2

82,2

76,3

Normale morfologia pro nucleare (%)

80.0

71,6

82,2

76,3

Degenerazione ovocita ria (%)

0,83

1,7

3,1

2,7

Divisione in 2° giornata (%)

100

97,9

97,8

94,2

Ottima+Buona qualità embrionale (%)

90

94,7

80,5

80,8

Tasso di blastocisti (%)

----

-----

47,5

48.7

Blastocisti di buona qualità (%)

----

-----

70

81,1