CRIOCONSERVAZIONE

E TRAPIANTO DI TESSUTO OVARICO


Ferrari Stefania, Paffoni Alessio, Guido Ragni.



INTRODUZIONE

L’aumento del tasso di sopravvivenza delle pazienti oncologiche ha sottolineato le conseguenze a lungo termine dei trattamenti ai quali vengono sottoposte ed ha portato in primo piano il problema della funzionalità gonadica dopo la guarigione.

Gli effetti dei trattamenti per il cancro sull’attività riproduttiva sono noti da lungo tempo (Chapman et al. 1979). Nelle donne, sia la chemioterapia che la radioterapia possono compromettere o interrompere la funzionalità ovarica attraverso la riduzione del numero di follicoli; inoltre la radioterapia, se interessa la zona pelvica, può portare effetti avversi sulla funzionalità uterina (Howell & Shalet 1998).

Per migliorare la qualità di vita di queste pazienti è dunque necessario considerare strategie utili a favorire il mantenimento della fertilità. Attualmente, l’unica procedura di comprovata efficacia per lo scopo è il congelamento degli embrioni, come definito dal Comitato Etico dell’American Society for Reproductive Medecine (ASRM) (Donnez et al. 2006a, ASRM 2005, Varghese et al.2008). Questo procedimento necessita però della possibilità di sottoporre la paziente ad un ciclo di stimolazione ormonale utilizzando poi tecniche di PMA per produrre gli embrioni. Esistono tuttavia dei limiti, come l’impossibilità di sottoporsi ad una stimolazione ormonale per la necessità di iniziare immediatamente il trattamento antineoplastico o la presenza di un tumore ormone-sensibile, o la mancanza di un partner, o, naturalmente, il trattamento di pazienti prepuberi (ASRM 2008, Anderson et al. 2008).

Un’opzione sempre più studiata per ovviare a queste limitazioni è il trapianto di tessuto ovarico (OTT), crioconservato o fresco, che ha ottenuto incoraggianti risultati preliminari negli esperimenti sugli animali, e che sull’uomo è ad oggi una tecnica in fase sperimentale. Attraverso l’OTT è stata riportata la capacità di ripresa della funzionalità ovarica in 43 donne (Bedaiwy et al 2008) e la nascita di 5 bambini (Donnez et al. 2004, Meirow et al. 2005, Demeestere et al. 2007, Andersen et al. 2008).


INDICAZIONI TERAPEUTICHE

La crioconservazione del tessuto ovarico è stata concepita per preservare la funzione riproduttiva nelle pazienti oncologiche a rischio di infertilità dopo chemio/radioterapia. Si consideri che negli Stati Uniti ogni anno vengono effettuate circa 50.000 nuove diagnosi di cancro in donne in età riproduttiva; tra queste la più frequente riguarda il tumore della mammella, che nel 15% dei casi colpisce donne sotto i 45 anni (Ries et al. 1999). Molte di queste pazienti sono sottoposte a chemioterapia con agenti alchilanti che possono compromettere la loro capacità riproduttiva. Altre tipologie diffuse di cancro, come quello alla cervice, portano spesso alla menopausa precoce.

È in progressivo aumento il tasso di sopravivenza dei bambini che vengono trattati con chemio/radioterapia per i tumori tipici dell’età infantile e che richiedono il trapianto di midollo osseo (Apperley & Reddy 1995). Il trapianto di midollo osseo o, negli ultimi tempi, di cellule staminali, richiede alte dosi di chemio e/o radioterapie per ottenere l’ablazione di midollo osseo del paziente: questo regime terapeutico provoca l’interruzione della funzionalità ovarica nella quasi totalità delle pazienti.

Anche pazienti affette da patologie non oncologiche possono essere interessate alla preservazione della fertilità: indicazioni comuni sono le malattie autoimmuni, come il lupus eritematoso, o condizioni genetiche associate ad una prematura interruzione dell’attività ovarica, oppure patologie benigne che richiedano ovariectomia. Demeestere et al. riportano che circa il 20% delle pazienti che richiedono tecniche di preservazione della fertilità siano affette da condizioni “non- oncologiche” (Demeestere et al. 2009)

Oltre alla crioconservazione del tessuto ovarico è possibile talvolta considerare un approccio alternativo che prevede il trapianto di tessuto ovarico fresco. Questo può avvenire semplicemente prelevando l’ovaio dalla sua sede naturale e collocandolo in altra sede in cui i trattamenti radioterapici non possano danneggiarne la funzionalità. Sono inoltre riportati casi di OTT eterologhi tra gemelle omozigoti discordanti per Premature Ovarian Failure (POF) (Silber and Gosden 2007).

Oltre alle indicazioni terapeutiche è necessario valutare molteplici fattori per comprendere i possibili benefici che una paziente possa ottenere sottoponendosi alla crioconservazione ed al trapianto di tessuto ovarico. In mancanza di linee guida ufficiali emanate dagli organi competenti, uno dei gruppi pionieri in questo settore ha elaborato i seguenti criteri per accedere alla procedura: la paziente non deve aver superato i 30 anni, non deve avere avuto figli in precedenza, deve avere una ragionevole possibilità di sopravvivenza a 5 anni, un rischio stimato di almeno 50% di perdere la funzionalità ovarica in seguito ai trattamenti e non deve avere subito precedenti chemio/radioterapie. A quest’ultima regola si può soprassedere se la paziente abbia meno di 15 anni ed abbia in precedenza solo terapie non particolarmente gonadotossiche (Anderson et al. 2008). Tali criteri trovano massima applicazione ai fini del mantenimento della fertilità e di una futura gravidanza; va considerato, tuttavia, che la gravidanza non è l’unico l’outcome perseguibile dalla procedura di OTT: esiste la possibilità di voler evitare la prematura interruzione dell’attività ovarica e le conseguenze della menopausa precoce, vanificando in parte alcuni criteri di inclusione, in primo luogo quello relativo all’età (Bedaiwy et al. 2008).


Trapianto di tessuto ovarico (OTT): possiblità e problematiche

Il principale problema del trapianto è il danno ischemico che si crea nel tessuto trapiantato; il tempo di ri-perfusione è critico per la sopravvivenza dei follicoli. Nel topo si osserva, utilizzando la tecnica dell’autotrapianto, un’iniziale riperfusione dopo 3 giorni (Nugent et al. 1998), mentre nel ratto sottoposto ad un trapianto autologo di ovaio immaturo si nota una neovascolarizzazione già dopo 48 ore e la funzionalità effettiva dopo 1 settimana (Dissen et al. 1994). Nell’uomo Martinez-Madrid et al. osservano il processo di neovascolarizzazione solamente dopo 3 giorni dalla procedura (Martinez-Madrid et al. 2009).

Il danno ischemico provoca un drastico impoverimento del pool di follicoli presente nel tessuto trapiantato. Si stima che almeno il 25% dei follicoli primordiali venga perso durante lo xenotrapianto in topo di tessuto ovarico umano crioconservato (Nisolle et al. 2000); altri Autori riportano addirittura il 60-95% di follicoli persi (Candy et al. 1997, Liu et al. 2008).

La ripresa dello sviluppo follicolare e dell’attività ovarica avviene di solito 4-5 mesi dopo il trapianto (Donnez et al. 2006a) e persiste da pochi mesi fino a 5 anni (Oktay e Karlikaya 2000, Callejo et al. 2001, Radford et al. 2001, Schmidt et al. 2005, Donnez et al. 2006a, Demeestere et al. 2007) ma l’elevato livello basale di FSH solitamente osservato dopo il trapianto riflette spesso una scarsa riserva ovarica (Donnez et al. 2005).

L’utilizzo di fattori di crescita potrebbe avere effetti positivi sulla vascolarizzazione del tessuto, come mostrato in esperimenti preliminari su modello animale: se l’utilizzo del VEGF non ha dimostrato avere effetti sui primati sottoposti a trapianto (Schnorr et al. 2002), l’eritropietina si è mostrata capace di promuovere la differenziazione e la proliferazione di progenitori eritroidi e di prevenire l’apoptosi nel tessuto trapiantato (Suzuki et al. 2008).

Un ulteriore fattore di rischio per la sopravvivenza del tessuto si verifica proprio durante la riperfusione e consiste nella formazione di ingenti quantità di specie reattive dell’ossigeno (ROS) che danneggiano le membrane cellulari, perossidano i lipidi e diminuiscono la funzionalità dei mitocondri (Kupiec-Weglinsky e Busuttil 2005). Per ovviare a tale problema è stato sperimentato nel ratto l’utilizzo di antiossidanti, come l’acido ascorbico ed il mannitolo, che hanno dimostrato di poter ridurre il danno ischemico indotto chirurgicamente (Sagsoz et al. 2002), la melatonina e l’oxytetracliclina che, somministrati intraperitonealmente, diminuiscono i fenomeni necrotici nell’ovaio (Sapmaz et al. 2003). Nel bovino, tessuti incubati 24 ore con acido ascorbico hanno mostrato riduzione dell’apoptosi (Kim et al. 2004a); tuttavia, nessun antiossidante si è dimostrato tutt’ora efficace nell’aumentare la percentuale di sopravvivenza dei follicoli.

Esperimenti di xenotrapianto di tessuto umano hanno evidenziato che la stimolazione con gonadotropine iniziata prima e protratta dopo il trapianto ha effetti positivi sulla vitalità e sulla crescita follicolare (Imthurn et al. 2000, Oktay et al., 2000). In campo umano non vi sono ancora evidenze sull’efficacia dei trattamenti ormonali nonostante alcuni autori abbiano sperimentato approcci di vario tipo (Oktay et al. 2003, Donnez et al. 2006a,2007, Meirow et al. 2005) apparentemente non più efficaci della totale assenza di trattamento (Schmidt et al. 2005, Demeestere et al. 2006, 2007).


Crioconservazione del tessuto ovarico

Al contrario degli oociti maturi, gli ovociti immaturi presenti nei follicoli primordiali dell’ovaio sono meno sensibili ai danni dati dalla crioconservazione grazie ad alcune caratteristiche peculiari: dimensioni ridotte, limitata presenza di organelli, assenza di zona pellucida, ridotta attività metabolica e stato di relativa quiescenza ed indifferenziamento (Gosden et al. 1994, Tao & Del Valle 2008). Questi follicoli, allo stadio iniziale di sviluppo, sono in grado di sopravvivere sia alle procedure di congelamento-scongelamento del tessuto ovarico umano (Hovatta et al. 1996), sia dell’ovaio umano in toto (Martinez-Madrid et al. 2004).

Il metodo più studiato per congelare il tessuto ovarico è lo slow freezing che, attraverso l’utilizzo adeguato di crioprotettori, presenta un grado di sopravvivenza follicolare del 70-80% (Hovatta et al. 1996, Fabbri et al. 2003, Demeestere et al. 2009). Confrontando tessuto ovarico congelato e fresco non sono state riscontrate differenze nella frammentazione del DNA (Demirci et al. 2002) ma non sono ancora completamente chiari gli effetti della crioconservazione sull’integrità della struttura delle cellule della granulosa. Inoltre, saggi d’espressione eseguiti su queste cellule con tecnologia micro-array hanno mostrato un anomalo ivello di espressione di geni coinvolti nei pathways apoptotici che potrebbe essere causato dalla procedura di crioconservazione (Lee at al. 2008). Il lavoro di Choi et al. conferma questi risultati, mostrando che il numero dei follicoli nel tessuto ovarico murino congelato-scongelato diminuisce rispetto al fresco dopo 5 giorni di coltura, evidenziando un possibile ruolo dei processi apoptotici e/o necrotici che si innescano dopo la crioconservazione. Non sono invece state riscontrate differenze di espressione dei geni tipici dello sviluppo follicolare come GDF9, inibina-α o ZP3 (Choi et al. 2007).

La vitrificazione è un metodo di crioconservazione di recente re-impiego nel campo della preservazione della fertilità. Durante la vitrificazione, l’istantaneo abbassamento della temperatura di una soluzione molto concentrata di crioprotettori, porta la fase acquosa in uno stato semi-solido amorfo che non contiene cristalli di ghiaccio, noti per essere la maggiore fonte di danno conseguente al congelamento (Rall & Fahy 1985). La vitrificazione del tessuto ovarico è già stata sperimentata in diversi modelli animali con risultati alterni: topo (Chen et al. 2006), pecora (Bordes et al. 2005, Wang et al. 2008), cane (Ishijima et al. 2006), bovino e maiale (Gandofi et al. 2006) e anche nella specie umana (Wang et al. 2008, Demeestere et al. 2009). I lavori più recenti relativi alla vitrificazione sembrano evidenziare un mantenimento migliore della struttura ovarica, delle cellule stromali e degli spazi intercellulari, ma confermano che l’utilizzo in studi clinici richieda la preventiva dimostrazione dell’efficienza e della sicurezza.

La crioconservazione di tessuto ovarico era inizialmente effettuata soprattutto utilizzando frammenti di corticale al fine di preservare il maggior numero possibile di follicoli primordiali; negli ultimi anni l’interesse si è concentrato anche sulla possibilità di conservazione dell’ovaio in toto, con o senza peduncolo vascolare.

Recentemente molti gruppi si sono indirizzati verso la possibilità di crioconservare l’intera gonade femminile sfruttando gli studi condotti sui modelli animali. Bedaiwy et al. hanno dimostrato che nella pecora è possibile la crioconservazione dell’ovaio intero ottenendo dopo lo scongelamento una ragionevole vitalità del tessuto e che, tecnicamente, la perfusione dell’organo con crioprotettori attraverso il canale vascolare ed il successivo autotrapianto con anastomosi microvascolare è fattibile e dà buoni risultati (Bedaiwy et al. 2003).

In ambito umano, Martinez-Madrid et al. hanno descritto un protocollo in cui crioconservando l’ovaio intero con il peduncolo si possono ottenere allo scongelamento il 75% di sopravvivenza dei follicoli ed una struttura dei vasi e dello stroma istologicamente normale se paragonata a quella di un ovaio fresco (Martinez-Madrid et al. 2004); in uno studio successivo, gli stessi Autori hanno dimostrato che la procedura di congelamento non comporta aumento di frammentazione del DNA (analizzata tramite il test TUNEL), variazioni nell’aspetto immunoistochimico o attivazione della caspasi-3 (Martinez-Madrid et al. 2007).


Ovaio intero o frammenti di corticale?

Il trapianto dell’ovaio con anastomosi vascolare permette una rapida rivascolarizzazione della corticale ovarica e quindi una riduzione del danno ischemico (Bedaiwy e Falcone 2004). Questa procedura richiede la presenza di un peduncolo ovarico sufficientemente conservato ed implica una tecnica chirurgica più complessa rispetto al re-impianto di frammenti corticali in sede ortotopica.

In diverse specie animali è stato possibile effettuare il trapianto di ovaio a fresco (Goding 1966, Scott et al. 1981, Wang et al. 2002, Demeestere et al. 2009).

In ambito umano, Silber et al. (Silber et al. 2008) riportano una gravidanza ottenuta dopo trapianto di ovaio intero fresco tra due gemelle omozigoti discordanti per menopausa precoce.

Sugli animali è stata anche testata la possibilità di crioconservare l’ovaio in toto e di trapiantarlo, con risultati incoraggianti; nella pecora, modello d’elezione per l’apparato riproduttivo, sono riportati successi di trapianto di ovaio, basati sulla conservazione del vaso epigastrico e del peduncolo vascolare ovarico, esitati anche nella nascita di agnelli sani (Bedaiwy et al. 2003, Arav et al. 2005). Nonostante questi successi, è riportato che a distanza di alcuni mesi dal trapianto, il tasso di sopravvivenza dei follicoli può essere inferiore all’8% (Imhof et al. 2006). Queste osservazioni pongono il problema di quanto il trapianto possa essere efficace e duraturo nel tempo.

Nell’uomo la crioconservazione dell’ovaio in toto effettuata tramite slow freezing (Martinez-Madrid et al. 2004, 2007, Bedaiwy et al. 2006, Martinez-Madrid e Donnez 2007) ha mostrato che l’integrità strutturale dell’organo può essere mantenuta e che il tasso di sopravvivenza follicolare, conservando il pediculo vascolare per agevolare la riperfusione, può essere elevato, fino al 75% (Martinez-Madrid et al. 2004). Bedaiwy et al. hanno utilizzato i tessuti di donne sottoposte a ovariectomia bilaterale per comparare il danno da congelamento-scongelamento nell’ovaio in toto e nelle biopsie di tessuto corticale. Un ovaio è stato crioconservato intatto con il peduncolo vascolare mentre l’altro sezionato in piccole strips e congelato con slow freezing. Dopo 7 giorni di conservazione l’ovaio intero non mostrava differenze di sopravvivenza rispetto ai frammenti di tessuto congelati con slow freezing e nemmeno alterazioni nell’espressione dei pattern di Bcl-2 e p53 (Bedaiwy et al. 2006).

Nonostante la procedura di trapianto dell’ovaio in toto sia già applicabile in campo umano ed i dati suggeriscano che il congelamento-scongelamento possa essere un approccio concreto alla preservazione della fertilità, sono necessari ulteriori studi per stabilire l’efficacia anche a lungo termine, considerando l’ingente perdita di riserva follicolare riscontrata durante gli studi sugli animali.


Sede eterotopica od orto topica per il trapianto?

L’autotrapianto permette di evitare l’immunosopressione del paziente e può essere sia ortotopico che eterotopico. Nel trapianto ortotopico il tessuto viene reinserito nella sua sede originaria per cui può teoricamente permettere concepimenti spontanei se il resto dell’apparato riproduttivo non ha subito danni. Nel trapianto eterotopico il tessuto è posizionato in una sede differente da quella originaria, solitamente facilmente raggiungibile e monitorabile, come, per esempio, l’avambraccio o la zona sottocutanea addominale (Callejo et al. 2001, Kim et al. 2004b); è possibile che la differenza di microambiente possa ripercuotersi negativamente sulla qualità degli oociti (Wolner-Hanssen et al. 2005).

Molti esperimenti su animali hanno cercato di chiarire gli effetti della sede di re-impianto sul trattamento. Deng et al. (2007) hanno mostrato che, nel coniglio, si ottengono risultati paragonabili per istologia ed ultrastruttura trapiantando tessuto fresco o crioconservato a livello del mesometrio, della borsa ovarica o dell’ ovaio. Altri studi sostengono che la borsa ovarica o la capsula renale siano siti migliori di quelli intraperitoneali o sottocutanei (Imthurn et al. 2000, Callejo et al. 2001, Yang et al. 2006). Nel topo il tessuto trapiantato in sede intraperitoneale contiene meno follicoli in crescita (12%) rispetto a quello trapiantato sotto la capsula renale (70%) (Imthurn et al. 2000). Inoltre Yang et al. (2006) dimostrano che il numero di embrioni a 2 cellule che si formano dopo maturazione in vitro è maggiore se gli oociti provengono da un trapianto ortotopico piuttosto che da uno eterotopico, mentre non c’è differenza nella capacità di impianto.

Per quanto riguarda la specie umana sono stati condotti esperimenti di xenotrapianto in topo per determinare la differenza del numero dei follicoli presenti in base ai diversi siti di impianto (Hernandez-Fonseca et al. 2004).

I possibili siti eterotopici per trapianto di tessuto nella donna sono molteplici: l’utero, il muscolo retto dell’addome, lo spazio tra il tessuto mammario e la fascia superiore dei muscoli pettorali, la fascia addominale tra l’ombelico e il pube (Callejo et al. 2001, Kim et al. 2004b, Rosendhal et al. 2006). I trapianti in questi siti hanno mostrato di essere in grado di ristabilire la funzionalità ovarica ma non di dare origine a gravidanze dopo la raccolta degli ovociti (Oktay et al. 2001, 2004, Demeestere et al. 2006). Oktay et al. (2004) da un trapianto sottocutaneo hanno ottenuto 20 oociti, ma solo 8 di questi erano adatti alla inseminazione in vitro e solo 2 si sono fecondati. L’unico embrione a 4 cellule trasferito non ha dato origine all’impiano in utero.

I pochi casi di nascita di bambini dopo trapianto derivano da autotrapianti di frammenti di corticale in siti ortotopici come la fossa ovarica o l’ovaio residuo (Donnez et al. 2004, Meirow et al. 2005, Demeestere et al. 2007, Andersen et al. 2008, Silber et al 2008).

Alla luce di questi lavori sembra che il trapianto eterotopico, nonostante permetta una ripresa della funzionalità ovarica, influisca negativamente sulla qualità degli oociti e sulla loro capacità di formare embrioni vitali, per cui è da ritenersi sub ottimale nel caso in cui la paziente sia alla ricerca di una gravidanza.


Maturazione in vitro (IVM) dei follicoli primordiali.

La preservazione della fertilità può avvalersi dei metodi di coltivazione in vitro dei follicoli pre antrali o degli ovociti recuperati da follicoli a diverso stadio di sviluppo.

Quest’ultimo approccio, che sfrutta la fase terminale di sviluppo ovocitario in vitro, è attualmente utilizzato in casi selezionati di PMA, ed in particolare è ritenuto un metodo efficace per le pazienti affette da policistosi ovarica; ha portato alla nascita di alcune centinaia di bambini sani (Varghese et al. 2008). Le condizioni di coltura influenzano enormemente la riuscita della procedura; alcuni Autori, come Buckett et al. (2008), mostrano un aumentato tasso di aborti clinici dopo IVM rispetto all’utilizzo di tecniche convenzionali di fecondazione in vitro. Al momento mancano dati sufficienti per chiarire molti aspetti ed è necessario continuare a monitorare gli effetti a lungo termine sui nati da tale tecnica.

L’opzione più innovativa, ma ancora in fase assolutamente sperimentale è la coltura in vitro dei follicoli primordiali che possa portare allo sviluppo dell’ovocita all’interno del suo ambiente “naturale”. Alcuni studi hanno già dimostrato nel modello animale la possibilità che il complesso ovocita-cellule della granulosa derivanti da tessuto ovarico crioconservato sia in grado di crescere e raggiungere la caratteristiche di follicolo antrale (Eppig et O’Brien 1996) ed originare ovociti fecondabili (Mousset-Simeon et al. 2005). Nella specie umana gli studi sono ancora allo stadio iniziale di comprensione dei meccanismi molecolari coinvolti nel processo di maturazione e delle migliori modalità di coltura migliori da utilizzare (Varghese et al. 2008).

Abir et al. (1999) hanno proposto un tentativo di coltura dei follicoli in un gel di collagene e da allora diversi studi hanno indagato l’importanza di allestire colture tridimensionali per conservare l’architettura fisiologica del follicolo (Johnson et al. 1995, Smitz et Cortvrindt 2002) e di adattare il terreno alle esigenze di crescita tramite l’aggiunta progressiva di fattori specifici per le successive fasi di crescita (Wright et al. 1999, Abir et al. 2006). Ultima frontiera, per ora affrontata nella specie murina, è la coltura tridimensionale dei follicoli in biglie di alginato in cui la matrice supporta la crescita e permette alla struttura di mantenere una morfologia definita in vivo-like (Pangas et al. 2003). E’ da valutare se tale procedura possa essere utile anche nell’uomo in cui la grande differenza nella velocità di maturazione dei gameti potrebbe richiedere una coltura di molti mesi (Kreeger et al. 2005).


APPLICAZIONE CLINICA

Il modello animale d’elezione per lo studio dell’apparato riproduttivo femminile è la pecora e proprio questo modello animale ha fornito molte pubblicazioni che riguardano il trapianto di frammenti di tessuto ovarico o di ovaio intero e la loro crioconservazione. Già da qualche anno alcuni Autori hanno mostrato la capacità di ristabilire la funzione ovarica con il trapianto di strips di corticale ovarica crioconservate (Gosden et al. 1994) e successivamente Salle et al. (2003) hanno riportano anche la nascita di un agnello sano dopo autotrapianto di una porzione di ovaio (hemi-ovary) crioconservato.

Bedaiwy et al. (2003) hanno indicato che anche l’ovaio in toto sopravvive alla crioconservazione mantenendo una buona vitalità dopo lo scongelamento ed Arav et al. (2005) hanno definitivamente confermato questa osservazione tramite un trapianto di ovaio intero con anastomosi della vena e dell’arteria in cui i vasi erano intatti ed il flusso sanguigno ovarico normale e, nonostante la compromissione dei follicoli dovuta al congelamento, l’attività ovarica era riscontrabile dopo due mesi dal trapianto. L’anno successivo è stata riportata la prima gravidanza ed il primo nato vivo da trapianto di ovaio intero nella specie ovina (Imhof et al. 2006).

Nei primati è stata invece recentemente dimostrata la possibilità, attraverso il trapianto eterotopico sottocutaneo, di ripristinare il ciclo mestruale e la capacità di produrre oociti maturi sotto stimolazione gonadotropina (Schnorr et al. 2002) da cui è possibile ottenere nati vivi (Lee et al. 2004).

I successi riportati in campo umano con la procedura di OTT hanno utilizzato differenti trattamenti del tessuto ovarico, da strips di corticale all’ovaio intero con o senza peduncolo vascolare (Oktay 2001, Oktay et al. 2003, Donnez et al. 2006b). Mentre per il tessuto fresco sono state sperimentate tutte queste varianti, per quello congelato finora sono state utilizzate più frequentementes le biopsie di corticale, sottoforma di strips associate a trapianto in sede ortotopica o eterotopica, o in alcuni casi in entrambe le sedi contemporaneamente (Schmidt et al. 2005, Rosendhal et al. 2006).

Bedaiwy et al. (2008) in una valutazione molto puntuale sull’utilizzo e l’efficienza clinica della procedura di OTT riporta per 46 donne sottoposte a trapianto dal 1987 al 2008 le seguenti indicazioni: 27 per diagnosi di POF, 16 per rischio di POF, 2 per infertilità; in un caso è stato documentato il ripristino di attività ovarica successivo ad un accidentale “intrappolamento” di tessuto ovarico nel muro addominale durante un’ovariectomia laparoscopica per patologia benigna. Nella quasi totalità dei casi l’OTT ha comportato il trapianto di frammenti di tessuto corticale ovarico e solo per 3 pazienti è stato utilizzato l’ovaio intero: in due di questi casi il trapianto di ovaio intero è avvenuto in sede eterotopica per evitare che fosse danneggiato dalle radioterapie indirizzate alla zona pelvica (Leporrier et al. 1987, Hilders et al. 2004), mentre l’altro caso è stato sottoposto a trapianto di ovaio proveniente dalla sorella HLA-matched per ristabilire l’attività ovarica assente a causa di disgenesia (Mhatre et al. 2005). Il ripristino della attività ovarica è stato documentato in tutte e tre queste pazienti ma nessuna ha ottenuto una gravidanza.

Prendendo in considerazione le 23 pazienti in cui effettivamente la POF era in atto al momento del trapianto, documentata con livelli pre-OTT di FSH > 30 IU/L, si è riscontrata crescita follicolare nel tessuto trapiantato in tutti i casi, dopo un tempo mediano di 120 giorni (60-244), mentre la ricomparsa del ciclo mestruale si è verificato in 18 casi. Analizzando i dati nel complesso, Bedaiwy et al. concludono indicando due fattori legati alla procedura che favoriscono la ripresa della funzionalità ovarica: utilizzo di tessuto fresco rispetto al congelato ed innesti più ampi di tessuto. Riguardo la durata della funzionalità ovarica nel tempo, è stato osservato che, dopo sei mesi di follow up dalla procedura di OTT, 4 donne su 23 presentavano di nuovo assenza di attività ovarica con incremento dei livelli di FSH, riduzione della produzione di estrogeni e mancata crescita follicolare. Per analizzare come outcome la gravidanza è necessario escludere tutte le pazienti che abbiano subito isterectomia o che non abbiano cercato prole, riducendo la casistica a 24 pazienti, delle quali 19 con indicazione rischio POF (Radford et al. 2001, Donnez et al. 2004, Oktay et al. 2004, Meirow et al. 2005, Schmidt et al. 2005, Wolner-Hassen et al. 2005, Demeestere et al. 2006, Donnez et al. 2006, Rosendhal et al. 2006, Silber e Gosden 2007), 2 con endometriosi (Donnez et al. 2005), 2 pazienti affette da sindrome di Turner sottoposte a trapianto eterologo (Mhatre et al. 2005) ed una sottoposta a chemioterapia per Malattia di Hodgkin ma senza verificarsi di POF (Leporrier et al. 1987). Sono state ottenute 9 gravidanze (di cui una biochimica), in 8 donne diverse (Donnez et al. 2004, Meirow et al. 2005, Demeestere et al. 2006, Rosendhal et al. 2006, Silber e Gosden 2007) ad una distanza mediana di 9 mesi dall’OTT (5.6-16 mesi). Di queste 8 donne, 4 erano state sottoposte ad OTT con tessuto ovarico crioconservato (Donnez et al. 2004, Meirow et al. 2005, Demeestere et al. 2006, Rosendhal et al. 2006) mentre le altre 4 avevano subito trapianto eterologo di tessuto proveniente da gemelle omozigoti discordanti per POF (Silber e Gosden 2007). Cinque gravidanze sono state ottenute spontaneamente, mentre per le restanti è stato necessario il ricorso a tecniche di fecondazione in vitro. Dal lavoro di revisione della letteratura clinica si evince che l’OTT è efficace nel ristabilire la funzione ovarica, almeno nel breve periodo, e che, a tal proposito, è indifferente il sito in cui avviene il trapianto. Nonostante gli studi sugli animali suggerissero che non vi fossero differenze tra l’utilizzo del tessuto fresco e crioconservato, nella specie umana il trapianto a fresco risulta più efficace, evidenziando l’esigenza di migliorare le tecniche di conservazione (Bedaiwy et al. 2006, Bedaiwy e Falcone 2007). Mancano tuttora dei dati di follow up sul lungo periodo, sia per la funzionalità ovarica che per i bambini nati, e non vi sono ancora risultati sull’utilizzo di ovaio intero crioconservato.


SICUREZZA

Principale problema di sicurezza nel trapianto di tessuto ovarico autologo è il rischio di reintrodurre cellule cancerose nel paziente con il tessuto trapiantato. Le metastasi ovariche sono rare nelle tipologie di tumori più frequenti nei giovani, come il tumore di Wilms, i linfomi, gli osteosarcomi, il sarcoma di Ewing e il rabdomiosarcoma extragenitale (Chang et Suh 2008). Alcune patologie neoplastiche, come i neuroblastomi ed i tumori al cervello, possiedono un moderato rischio di metastatizzare in sede ovarica (Tao et Del Valle 2008) ma esistono altre patologie in cui tale rischio è più concreto; nelle leucemie, in cui la metastasi ovarica è naturale, la paziente candidata ad OTT sarebbe posta di fronte ad un grave rischio. Per questo è fondamentale sviluppare maggiormente test per valutare la presenza di cellule trasformate nel tessuto da reimpiantare, avvalendosi di indagini istologiche e molecolari. Elizur et al. (2004) hanno mostrato come sia possibile analizzare metastasi microscopiche nel tessuto ovarico attraverso l’utilizzo di molteplici approcci, per esempio individuando HER2, considerato un marker dei tumori cerebrali. Nei casi di leucemia o linfomi è possibile valutare cromosomi e altri marker tumorali attraverso l’immunoistochimca e la biologia molecolare (Oktay 2001), ed in un prossimo futuro potrebbe essere possibile screenare eventuali cellule cancerose metastatiche prima del trapianto, utilizzando tecniche di immunoistichimica, citofluorimetria, di genetica molecolare o, ancora, di citogenetica.

Queste considerazioni non valgono per il trapianto eterologo, per il quale è necessario invece garantire l’istocompatibilità del donatore, e per la maturazione dei follicoli in vitro che è attualmente una tecnica del tutto sperimentale ed in via di sviluppo.

Una indicazione importante all’OTT è quella di donne portatrici di mutazioni in BRCA-1 e BRCA-2; in questi casi il rischio di sviluppare un tumore ovarico è, rispettivamente, del 60% e del 10-20% (Liede et al. 2002) e l’ovariectomia abbassa questo rischio del 90% (Kauff et al. 2002). Queste pazienti potrebbero beneficiare di trapianto eterologo oppure, in futuro, della maturazione in vitro o dello xenotrapianto. Studi per analizzare l’integrità degli oociti ottenuti da quest’ultima tecnica hanno però mostrato maturazione anomala del nucleo e del citoplasma (Kim et al. 2005). Lo xenotrapianto, nonostante le prove di principio biologiche, non è ancora applicabile a causa di questioni etiche, per il problema della trasmissione di virus o prioni tra le diverse specie coinvolte e per l’incapacità della specie “ricevente” di mantenere l’assetto epigenetico degli oociti della specie da cui deriva il tessuto (Lucifero et al. 2002).

Naturalmente è necessario approfondire le indagini che dimostrino la sicurezza delle diverse fasi della procedura, dal prelievo, alla crioconservazione al reimpianto.


PROBLEMI ETICI

Questioni etiche si aprono di fronte all’utilizzo di queste nuove procedure. In primo luogo perché la sicurezza delle tecniche deve ancora essere confermata univocamente.

Tutte le procedure di preservazione della fertilità femminile richiedono l’intervento chirurgico con anestesia per cui espongono la paziente a dei rischi aggiuntivi rispetto a quelli indispensabili al trattamento della sua patologia, e questo vale soprattutto per le pre-puberi in cui le ovaie sono piccole e l’operazione più rischiosa. Per contro i dati a nostra disposizione sul trapianto di tessuto ovarico, sia eterologo che autologo, sono troppo pochi per definire in maniera certa la loro efficienza ed il loro rapporto costi-benefici. Ancora più importanti diventano queste considerazioni quando si parla di tecniche più innovative quali la vitrificazione del tessuto, l’IVM di follicoli preantrali e degli ovociti da essi derivati o lo xenotrapianto.

Altro argomento di dibattito sono le indicazioni cliniche per le quali si possa suggerire la crioconservazione o il trapianto di tessuto ovarico. Alcuni autori hanno definito dei limiti, soprattutto legati all’età della paziente, ma non vi sono ancora linee guida ufficiali da parte degli organi competenti.

La somministrazione del consenso informato alla paziente è un punto altamente critico in quanto, data la preliminarità delle esperienze, è difficile offrire attendibili percentuali di rischio e di successo. Non è da sottovalutare l’aspetto psicologico che, in pazienti oncologiche, deve tenere in considerazione la difficoltà del percorso terapeutico e fornire gli elementi di informazione consoni al particolare stato emotivo della paziente. Nel caso di pazienti adolescenti il problema è amplificato e risulta ancora più difficile stabilire quale sia la forma di comunicazione corretta poiché sono i genitori a dover effettuare le scelte in vece dei figli.

I problemi etici si possono quindi sostanzialmente dividere in problemi che derivano dall’incertezza e dai dubbi che ancora persistono sulla procedura, e che quindi vanno risolti attraverso la ricerca clinica e di base, e quelli che derivano dalla corretta gestione del paziente nel percorso diagnostico-terapeutico.

E’ auspicabile che la comunità scientifica, considerando i progressi fino ad ora ottenuti, emani al più presto delle indicazioni per uniformare il comportamento degli operatori del settore e per informare correttamente i possibili fruitori delle tecniche.


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