L’isterectomia laparoscopica



L’isterectomia laparoscopica.

Luigi Selvaggi *, Maurizio Guido *, Andrea Fiaccavento°, Fabrizio Barbieri °,
Riccardo Zaccoletti °, Luca Minelli °.



L’isterectomia, con o senza annessectomia, è attualmente la più diffusa operazione chirurgica eseguita su donne non gravide negli Stati Uniti; vengono eseguite infatti circa 600000 interventi l’anno. Comunemente la tecnica per via vaginale è considerata, se non ci sono specifiche controindicazioni, la tecnica di prima scelta per eseguire una isterectomia e fino a qualche decennio fa l’alternativa alla colpoisterectomia era rappresentato esclusivamente dalla laparoisterectomia, con tutta una serie di complicanze e svantaggi legati all’approccio laparotomico. Con l’introduzione della isterectomia vaginale laparoscopicamente assistita (LAVH) negli anni ’80 da parte di Harry Reich, un nuovo approccio a questa procedura chirurgica si è affacciato alla valutazione del mondo scientifico, e varie modificazioni sono state descritte nell’ultimo decennio: la classica isterectomia sopracervicale intrafasciale, l’isterectomia sopracervicale laparoscopica (SLH) e l’isterectomia totalmente laparoscopica (TLH). Con l’esperienza ottenuta in questi interventi recentemente, sono stati pubblicati alcuni lavori che hanno permesso di allargare le indicazioni di questa tecnica celioscopica. Comunque un generale review dei tipi di isterectomia eseguiti negli Stati Uniti mostra come solo circa il 10% degli interventi sono eseguiti per via laparoscopica. Le linee guida dell’American College of Obstetrics and Gynecologists concludono che per scegliere la via attraverso cui eseguire l’intervento, bisogna valutare l’anatomia della paziente e l’esperienza del chirurgo; la maggior parte degli autori concordano con quest’affermazione. Secondo la loro esperienza e l’indicazione chirurgica, gli operatori preferiscono eseguire una LVAH piuttosto che una TLH quando un approccio laparoscopico è possibile. Mentre, nonostante il costante e notevole aumento di nuovi strumenti laparoscopici, la TLH è eseguita ancora in pochi centri al mondo.
Negli Stati Uniti comunque, si è assistito ad un significativo incremento dei tassi d’isterectomia laparoscopica: dallo 0.3% nel 1990 al 9.9 % nel 1997. Come dimostrato in tabella I, questo significativo incremento (circa 30 volte) in numero d’isterectomie laparoscopiche eseguite, nonostante l’aumento dei costi ospedalieri, circa raddoppiati per l’approccio laparoscopico (da US $ 5132 ad US $ 9385) è incoraggiante. Queste differenze si possono spiegare con l’introduzione di nuovi e più costosi strumenti, di nuovi manipolatori uterini che permettono una più gran varietà di angoli d’approccio chirurgici e con l’incremento in numero di casi eseguiti completamente con un approccio laparoscopico con un relativo aumento dei tempi chirurgici e conseguentemente dei costi. L’aumento dei costi riportato per la TLH rispetto all’approccio vaginale e/o addominale però non va valutato solamente considerando i costi di ricovero ospedaliero a breve termine, ma dovrebbe prendere in considerazione anche il costo a lungo termine per la società di un intervento chirurgico. Dal punto di vista economico quindi, per valutare l’impatto di un tipo di chirurgia sulla spesa sanitaria andrebbero considerati sia i costi diretti che quelli indiretti. I costi diretti sono costituiti da quattro principali componenti: la procedura chirurgica, servizi aggiuntivi eseguiti da altri dipartimenti, cure durante il ricovero e spese ospedaliere durante il periodo di convalescenza. I costi indiretti invece sono definiti come la perdita del valore produttivo della paziente dovuta alla morbidità postoperatoria. Da un’analisi dei costi eseguita in Svezia nel 1998 risulta però come la TLH sia più vantaggiosa dal punto di vista economico rispetto alla laparoisterectomia, come si evince dalla tabella II.
Un altro problema è il relativo alto tasso di morbidità riportato in letteratura. Una meticolosa lettura della metodologia di questi studi, comunque mostra un loro limitato valore: la maggior parte di questi sono, infatti, retrospettivi con un numero limitato di casi. Inoltre sono stati eseguiti principalmente da chirurghi esperti o durante la learning curve della nuova procedura. Una recente pubblicazione Finlandese, analizza prospetticamente 10110 isterectomie eseguite in tutta la Finlandia e mostra che con l’aumentare dell’esperienza, più di 30 procedure consecutive eseguite dall’operatore, il numero di complicanze si riduce significativamente. La tabella III mostra questa tendenza paragonando il tasso di complicanze in pazienti sottoposte ad isterectomia secondo tre differenti metodi: laparoscopico, vaginale e addominale. La significatività statistica per ogni modalità è stata valutata comparando le prime 30 procedure con le successive 30. Un miglioramento è stato notato nel gruppo laparoscopico riguardo alle complicanze a livello dell’uretere e della vescica; dopo aver eseguito, infatti, più di 30 procedure l’esperienza del singolo chirurgo aumenta notevolmente con un tasso di complicanze paragonabile a quello delle altre tecniche chirurgiche. Quest’articolo analizza anche e il tempo operatorio, la perdita di sangue stimata, il peso dell’utero e il periodo di convalescenza per ogni modalità di intervento. Come dimostrato nella tabella IV: la perdita ematica introperatoria era significativamente ridotta nel gruppo laparoscopico, paragonata al gruppo addominale e anche il periodo di convalescenza favoriva significativamente l’approccio laparosopico. La stessa tabella mostra anche però che il tempo operatorio era significativamente più lungo per l’approccio laparoscopico che per la via addominale.
Comunque una recente analisi dei risultati dell’università di Clermont-Ferrand in Francia mostra un tempo operatorio medio di 90’ paragonabile a quello di un’isterectomia addominale. Un’ulteriore analisi dei dati dello studio Finlandese mostra come le dimensioni dell’utero possono essere una limitazione o una controindicazione per l’isterectomia laparoscopica. Dato questo che non emerge dall’analisi della statistica di Clermont-Ferrand Francia dove sono state eseguite oltre 2000 TLH senza conversione laparotomica. Questo dimostra che quando il chirurgo è esperto e soprattutto l’organizzazione della sala operatoria è finalizzata a questo tipo di interventi anche uteri particolarmente grandi possono essere affrontati per via totalmente laparoscopica. Infatti, non esiste attualmente nessuna controindicazione assoluta all’isterectomia laparoscopica. Le controindicazioni relative includono quelle correlate all’anestesia generale e a problemi tecnici dovuti all’ingresso in addome: tale è la situazione in donne con ripetuti tagli cesarei o interventi chirurgici laparotomici, specialmente con un’incisione mediana dove la possibilità di aderenze peritoneali periombelicali raggiunge il 50 % limitando notevolmente il campo operatorio.
Con lo sviluppo della tecnica chirurgica le indicazioni a questo tipo di intervento al giorno d’oggi sono sempre più ampie. Una review della distribuzione del tipo di isterectomia per le più comuni categorie diagnostiche negli Stati Uniti è presente nella tabella V. E’ evidente da questi dati che la maggior parte dei chirurghi negli Stati uniti preferisce l’approccio laparoscopico per il trattamento dell’endometriosi come un’alternativa alla via addominale.
Un’altra interessante indicazione per cui l’isterectomia laparoscopica sta assumendo sempre più un’importanza crescente è per il trattamento del prolasso uterino. I vantaggi offerti dall’effetto magnificatorio della laparoscopia e dalla possibilità di mostrare l’anatomia della pelvi femminile in modo panoramico sono evidenti per questo tipo di patologie. Ulteriore indicazioni per cui sta crescendo l’interesse per l’isterectomia laparoscopica sono il carcinoma dell’endometrio e in misura inferiore il carcinoma della cervice. In una recente pubblicazione tedesca, un gruppo di 70 pazienti affette da carcinoma endometriale sono state randomizzate per LAVH o isterectomia addominale. Il principale vantaggio della LAVH paragonato all’approccio addominale era una riduzione significativa della perdita di sangue (594.2 ? 629.9 ml vs 229.2 ?190.2 ml). Questa tendenza ha portato inoltre a una riduzione della necessità di trasfusione di sangue intraoperatorie o nel post-operatorio. Il numero dei linfonodi pelvici e paraaortici era paragonabile nei due gruppi. In ogni caso la recurrence-free sopravvivenza a 40 mesi non differiva nei due gruppi. La durata media dell’intervento chirurgico risultava significativamente più lunga per il gruppo della LAVH rispetto alla via addominale, anche se negli ultimi interventi, con l’affinarsi della tecnica i tempi dei due tipi di interventi tendono a sovrapporsi. Gli autori giustificano questi risultati grazie alla maggior esperienza in chirurgia laparoscopica del loro centro.
In realtà, però, nella pratica clinica comune, nonostante l’aumentare delle indicazioni chirurgiche, e i miglioramenti della tecnica e degli strumenti laparoscopici, e i sempre più numerosi studi sulla fattibilità di un tale tipo di intervento il ruolo della laparoscopia è relegato a pochi isolati centri di eccellenza o a pochi isolati casi di uteri di ridotte dimensioni, facendo sì che ancora oggi la via attraverso cui eseguire un così comune intervento chirurgico (vaginale, laparotomico o laparoscopico) sia ancora oggetto di discussione. Il fallimento della diffusione della TLH suggerisce che la tecnica chirurgica non è stata adeguatamente insegnata e/o che i suoi vantaggi rispetto alla via laparotomica non sono stati pienamente apprezzati. L’obbiettivo che dovrebbe raggiungersi nel corso degli anni infatti, non è prediligere una via rispetto alle altre, ma piuttosto far sì che tutte e tre le tecniche siano eseguite nel modo migliore possibile in modo tale da poter eseguire l’una o l’altra indifferentemente a seconda dell’indicazione chirurgica. Una probabile flow-chart per il tipo di intervento chirurgico da eseguire è stata proposta infatti sempre da Chapron nel 1996 ed è riassunta nella figura I.
Nella pratica comune invece, le dimensioni dell’utero, anche queste in modo differente da centro a centro, spesso rappresentano un problema nella scelta dell’approccio chirurgico; l’approccio vaginale e generalmente controindicato e la laparoscopia è considerata molto rischiosa così che l’80-90% delle isterectomie di uteri di grandi dimensioni sono eseguite per via laparotomica, a volte con un’incisione ombelico-pubica. Le dimensioni e la mobilità dell’utero infatti rimangono i fattori limitanti per eseguire una TLH. Per ridurre il numero delle isterectomia laparotomiche è necessario valutare la fattibilità dell’approccio laparoscopico anche per uteri di grosse dimensioni.
Scopo del nostro studio infatti, dopo aver valutato una casistica di 434 TLH eseguite in un singolo centro negli ultimi 4 anni per stabilire il reale ruolo della TLH, è di paragonare i risultati chirurgici e il follow-up a breve termine di due gruppi di pazienti sottoposte a TLH, uno con uteri di taglia normale (<350 gr) e l’altro con uteri di dimensioni notevolmente aumentate (>500 gr) per dimostrare proprio la fattibilità e la relativa sicurezza di un tale approccio chirurgico.

Da Luglio 1997 a maggio 2001, 434 pazienti affette da una patologia uterina benigne sono state sottoposte ad un’isterectomia totalmente laparoscopica. I criteri di inclusione sono stati una patologia uterina benigna e l’approvazione della paziente, mentre i criteri di esclusione sono state le controindicazioni anestesiologiche per una chirurgia di tipo laparoscopico e il sospetto di una patologia maligna. Nessun limite di dimensioni uterine, né di pregressi interventi chirurgici è stato posto per iniziare l’intervento mediante un approccio laparoscopico. Tutte le pazienti sono state sottoposte ad una valutazione clinica preoperatoria e ad un esame ultrasonografico della pelvi; quando indicato invece è stata eseguita una biopsia endometriale e/o un’isteroscopia diagnostica. Le principali indicazioni chirurgiche sono riassunte in tabella VI.
La durata dell’intervento è stata calcolata dall’inizio alla fine della procedura anestesiologica. Un esame emocromocitometrico è stato eseguito in tutte le donne 24 ore dopo l’intervento, mentre un short-term follow-up è stato programmato 4-6 settimane dopo la dimissione. Durante questo periodo 36 donne non si sono presentate al controllo. Sono state considerate come complicanze precoci quelle insorte durante al massimo entro 1 settimana dall’intervento, mentre tardive quelle insorte dopo rilevate 1 mese dopo la procedura chirurgica al controllo ambulatoriale; tra le complicanze precoci sono state considerate maggiori quelle che hanno richiesto una trasfusione di sangue o un ulteriore intervento chirurgico, mentre minori quelle trattabili clinicamente e che non comportavano un pericolo di vita per la paziente.
Sono state anche analizzate in maniera retrospettiva, 100 TLH consecutive di uteri pesanti più di 500 gr e 149 TLH consecutive di uteri con un peso inferiore ai 350 gr eseguite negli ultimi anni. Per ridurre i BIAS sono state incluse nello studio solo pazienti con patologia uterina equivalente (fibromatosi uterina a nodi multipli), e interventi eseguiti tutti da chirurghi esperti in chirurgia laparoscopica avanzata, che avevano già eseguito almeno 100 TLH. I due gruppi uno con dimensioni uterine < 350 gr e l’altro con peso uterino > 500 gr, sono stati comparati per tasso di complicanze, tempo operatorio, ricovero ospedaliero, perdita ematica intraoperatoria e benessere al controllo post-operatorio a un mese.
Dall’analisi delle 434 TLH eseguite risulta che l’età media delle pazienti era 48 ? 5 anni. Il tempo operatorio medio, considerato dall’inizio della procedura anestesiologica alla fine della stessa, è stato di 132,8 ? 57,6 minuti, mentre il peso medio dell’utero 327,16 ? 83,5 gr (range 80-1550 gr). La caduta media di emoglobina rilevata in prima giornata e la durata della degenza ospedaliera erano rispettivamente 1,25? 0,9 gr/dl e 2,69 ? 1,6 giorni. Tali dati sono paragonabili con quelli presenti in letteratura. Durante le 434 procedure laparoscopiche la conversione alla laparotomia è stata necessaria in 5 casi (1,15%), in 2 casi per eccessivo sanguinamento, in altri 2 per difficoltà di visione e in uno per problemi anestesiologici correlati al rapido aumento di CO2 plasmatica. Dall’analisi delle complicanze intraoperatorie si nota come sia avvenuta solo una lesione ureterale, riparata durante lo stesso intervento, sempre per via laparoscopica con uno stent ureterale introdotto per via cistoscopica e una lesione intestinale riparata sempre tramite una sutura laparoscopica.
Ci sono state inoltre 36 (8,2%) complicanze precoci post-operatorie maggiori e minori in 30 pazienti. In 3 di questi casi è stato necessario ricorrere ad un secondo intervento, una volta per via laparoscopica e due volte per via laparotomica per emoraggia e peritonite. Negli altri 33, le complicanze minori sono state trattate senza ricorrere alla chirurgia, tranne in un caso di deiescenza della sutura della cupola vaginale che ha richiesto una ulteriore sutura per via vaginale. La lista completa delle complicanze precoci è riassunta nella tabella VII. Nelle 398 pazienti seguite ad un mese dall’intervento ci sono state 48 (12%) complicanze considerate minori e 4 (1%) considerate maggiori. Queste ultime hanno richiesto un ulteriore ricovero ospedaliero, e una paziente è morta per embolia polmonare. In questo caso non è stata mai provata una relazione causale tra l’evento avverso e la procedura chirurgica. Tra le complicanze minori 4 donne hanno avuto bisogno di un nuovo ricovero: due per dolore pelvico e altre due per riparare la volta vaginale. L’elenco completo delle complicanze tardive è riportato nella tabella VIII. In queste pazienti presentatesi al controllo a 1 mese il tempo di recupero per una normale attività lavorativa dopo l’intervento chirurgico è stato di 12,9 giorni.
Se analizziamo i due gruppi di pazienti divisi a seconda del peso dell’utero, eliminando tutte quelle TLH associate a altre procedure chirurgiche come per esempio le Burch, e tutte quelle TLH eseguite per endometriosi o incontinenza o prolasso o masse annessiali e prendiamo solo in considerazione solo quelle TLH eseguite per fibromatosi uterina a nodi multipli e soprattutto eseguite da chirurghi esperti che hanno eseguito oltre 100 TLH si ottengono 149 TLH con un utero di peso < 350 gr (range 80-350 gr) e 100 TLH con utero notevolmente aumentato di volume con un peso > 500 gr (range 500-1550 gr). I risultati della chirurgia laparoscopica dei due gruppi sono elencati nella tabella IX. Non ci sono significative differenze tra i due gruppi in termini di complicanze intraoperatorie, tempo di ricovero in ospedale e complicanze tardive. Le due complicanze intraoperatorie avvenute nel gruppo 2 hanno richiesto una conversione alla laparotomia, una per problemi anestesiologici correlati all’ipercapnia e l’altra per difficoltà di visione laparoscopica fin dall’inizio dell’intervento a causa di aderenze intraaddominali postchirurgiche. In entrambi i gruppi non si sono verificate lesioni ureterali, vescicali o intestinali. Analizzando la tabella si nota come il tempo operatorio e la perdita di sangue stimata al momento dell’intervento sono invece significativamente aumentate per il gruppo 2 rispetto al gruppo 1. In ogni caso è un problema presente anche negli approcci vaginali e laparotomici l’aumentare del tempo operatorio con l’aumentare delle dimensioni dell’utero; inoltre la perdita ematica ottenuta durante l’intervento non è stata mai superiore ai 500 ml, tale da richiedere una trasfusione d’urgenza o organizzare il macchinario per il recupero sangue durante l’intervento stesso. Se andiamo ad analizzare le complicanze postoperatorie precoci maggiori abbiamo una differenza significativa tra i due gruppi (2,01% vs 8%, rispettivamente), mentre per quanto riguarda le minori non vi è una differenza significativa. Anche al controllo post-operatorio ad un mese non ci sono differenze significative trai due gruppi.
La tabella X mostra i differenti tipi di complicanze avvenute nei due gruppi. Dall’analisi della tabella risulta come tra le complicanze maggiori precoci la colporaggia è un evento comune tra i due gruppi, mentre il gruppo 2 è più soggetto ad andare incontro ad una caduta dell’emoglobina > 3 gr rispetto al gruppo 1, come per una maggior difficoltà nel controllare l’emostasi durante l’isterectomia laparoscopica per uteri > 500 gr. In ogni caso non è stato necessario nessun reintervento e nessuna trasfusione di sangue in tutti e due i gruppi. Per quanto riguarda le complicanze precoci minori e le complicanze tardive non si nota una differenza significativa tra i due gruppi. Le complicanze tardive sono state trattate solo con terapia medica domiciliare, mentre solo due pazienti hanno avuto bisogno di un nuovo ricovero di due giorni una per una risutura della cupola vaginale e l’altra per notevole dolore addominale, riscontrato un una paziente del gruppo 1, risoltosi spontaneamente. Al controllo post-operatorio ad un mese è stata valutato anche il tempo intercorso dall’operazione al momento in cui la paziente si sentiva abbastanza bene per ritornare al lavoro, e non è stata trovata nessuna differenza significativa tra i due gruppi (12.47 ? 7.47 vs 14.37 ? 8.26 tra gruppo 1 e gruppo 2 rispettivamente).

Sebbene la via vaginale è da anni riconosciuta come quella associata ad un minor tempo operatorio, minor degenza ospedaliera e anche minori costi, la maggior parte delle isterectomia ai giorni nostri viene eseguita per via addominale. La maggior parte dei chirurghi considerano infatti come controindicazioni, abbastanza frequenti, alla colpoisterectomia i seguenti fattori: utero di dimensioni superiori a 280 gr, precedente chirurgia pelvica, storia di pregressa Malattia Infiammatoria Pelvica, moderata o severa endometriosi, concomitanti masse annessiali o necessità di eseguire una annessectomia profilattica, nulliparità con limitato accesso vaginale. Nonostante il fatto che chirurghi vaginalisti esperti possono essere capaci di rimuovere per via vaginale circa l’89% degli uteri, e che l’annessectomia profilattica può essere eseguita in circa il 94% dei casi da un abile vaginalista, non tutti i chirurghi ginecologi si sentono sicuri di eseguire una colpoisterectomia, come dimostrato dai numeri di laparoisterectomie e di colpoisterectomie eseguite in Europa e negli Stati Uniti. Con l’avvento della chirurgia laparoscopica, il miglioramento della tecnica e l’introduzione di nuovi strumenti negli ultimi dieci anni si è assistito ad una sempre maggior diffusione di questo approccio chirurgico con un graduale e continuo aumento del tasso di Total Laparoscopic Hysterectomy (TLH) o Laparoscopic Assisted Vaginal Hysterectomy (LAVH) rispetto alla colpoisterectomia e soprattutto alla laparoisterectomia. L’approccio laparoscopico infatti ha la funzione di rimuovere quelle che sono considerate le principali controindicazioni alla via vaginale, con vantaggi rispetto alla via addominale che appaiono scontati. L’approccio migliore alla isterectomia infatti, dovrebbe mantenere i vantaggi della via addominale, che includono una chiara visualizzazione, e una facile manipolazione delle strutture annessiali, combinare questi con i vantaggi della via vaginale, principalmente evitare una larga incisione addominale. La TLH o la LAVH possono infatti combinare queste tecniche, con i relativi vantaggi. In ogni caso i benefici offerti quali le dimensioni della cicatrice cutanea, un minor dolore postoperatorio e un minor tempo di degenza, sarebbero irrilevanti se le due nuove procedure laparoscopiche causassero irragionevoli rischi per la paziente.
L’avvento di queste nuove tecniche ha suscitato numerosi dubbi nei ginecologi non avvezzi alla laparoscopica a proposito dei costi e soprattutto della più alta possibilità di complicanze di questi nuovi approcci.
Dopo la prima isterectomia laparoscopica eseguita nel 1988, quando questo tipo di intervento è diventato più comune, alcuni studi comparativi sono stati eseguiti negli anni novanta. Uno studio retrospettivo del 1996, eseguito in un singolo centro mostra come il tasso di complicanze maggiori e di complicanze totali era del 1% e 9% per le addominali, 5% e 7% per le vaginali e 3% e 8% per le isterectomia laparoscopiche, rispettivamente. Questo in accordo con i risultati di una vasta analisi di oltre 160000 isterectomie in 180 ospedali dell’Ohaio eseguite dal 1988 al 1994, che mostrava una percentuale di complicanze totali del 9.1%, 7.8% e 8.8% nelle isterectomia addominali, vaginali e laparoscopiche rispettivamente. Altri dodici studi randomizzati hanno anche calcolato il tasso di complicanze totali a seconda della tecnica usata e non è stata trovata alcuna differenza in nessuno studio per quanto riguarda il tasso di complicanze dei diversi tipi di isterectomia, con solo una maggiore significativa incidenza di febbre post-operatorio per le isterectomia addominali rispetto alle laparoscopiche (46% vs 15%).
Quando si introduce una nuova tecnica chirurgica è sempre un problema impararla senza causare danni nei pazienti. Inoltre le aspettative correlate ad una chirurgia “mini-invasiva” sono sempre molto alte e conseguentemente la delusione è molto alta quando avviene una complicanza; mentre se la stessa avviene durante una chirurgia tradizionale essa viene accettata come inevitabile. Inoltre se si analizzano le complicanze di differenti tecniche chirurgiche, va considerato però che un fattore molto importante è l’abilità e quindi l’esperienza dell’operatore. Tutte le nuove tecniche chirurgiche pertanto necessitano di una learning curve adeguata per poter essere valutate: una chiara e dimostrata riduzione dei tempi operatori e in qualche caso una riduzione delle complicanze è stata osservata con l’aumentare dell’esperienza dell’operatore nella TLH. La principale complicanza correlata alla TLH è la lesione ureterale. Il tasso di lesione ureterale in caso di colpoisterectomia, laparoisterectomia totale o subtotale è basso se comparato alla TLH. Ma con l’aumentare dell’esperienza del chirurgo le percentuali di complicanza sono pressoché sovrapponibili.
Da uno studio Finlandese, inoltre, risulta come tali lesioni siano più comuni negli ospedali locali rispetto agli ospedali universitari dove si presume ci sia una maggiore esperienza. Con l’aumentare dell’esperienza chirurgica nella TLH quindi si è riusciti ad ottenere un tasso di complicanze sovrapponibile alla laparotomia e si è quindi cercato di incrementare le indicazioni alla TLH rispetto alla via laparotomica. Dall’analisi del nostro studio si può dedurre che la TLH può essere eseguita nella maggior parte delle donne che necessitano di una isterectomia, evitando una laparotomia anche quando l’utero è aumentato di dimensioni. Il semplice spostamento della telecamera dal trocart ombelicale ad un accesso posto circa 5 cm sopra l’ombelico, permette l’esecuzione di TLH anche in donne con uteri che a causa della spinta del manipolatore uterino arrivano all’ombelicale trasversa. Solo 5 conversioni infatti alla via laparotomica sono state necessarie e la maggior parte di queste per motivi legati alla difficoltà della visione. Un accesso difficoltoso, e i problemi correlati all’esposizione e all’estrazione dell’utero sono le principali problematiche correlate alla TLH soprattutto quando l’utero è di dimensioni notevolmente aumentate. Una tale caratteristica infatti determina un limitato accesso al peduncolo vascolare con un conseguente maggior rischio di emorragia. Con adeguate modificazioni alla tecnica chirurgica però risulta possibile superare questi limiti: l’uso di una telecamera a 30 gradi permette una buona visione con migliori angoli di approccio al peduncolo uterino e l’introduzione della sutura sui peduncoli vascolari permette di ridurre il rischio di sanguinamento rispetto alla coagulazione bipolare e nello stesso tempo riduce i rischi di lesioni ureterali.
Dall’analisi delle 434 isterectomie laparoscopiche risulta come sia una tecnica chirurgica fattibile e sicura anche se secondo l’opinione comune uteri di dimensioni notevolmente aumentate sono una principale controindicazione all’approccio laparoscopico e una indicazione per la via addominale; va detto però che anche per l’approccio laparotomico tali uteri sono associati a un più alto tasso di complicanze, più lunga degenza ospedaliera, aumentato dolore postoperatorio e prolungato periodo di convalescenza. Dalla nostra casistica invece si evince proprio come le dimensioni dell’utero non risultano essere una controindicazione assoluta alla via laparoscopica. Dalla analisi delle 249 isterectomie eseguite per fibromatosi uterina divise in due gruppi a seconda del peso dell’utero si vede come vi sia una chiara, ma ben comprensibile, differenza significativa tra i tempi necessari per l’intervento, proprio però come succede per la via laparotomica. Diversamente da quanto risulta in letteratura le isterectomie eseguite su uteri > 500gr invece, non sono gravate invece da un maggior tasso di complicanze, eccetto per la caduta di emoglobina al giorno 1 postoperatorio. Le pazienti con utero > 500 gr infatti mostrano una percentuale di complicanze emorragiche (caduta di Hb > 3 gr/dl in prima giornata) significativamente maggiore rispetto al primo gruppo, anche se non è stata mai necessaria una trasfusione di sangue. La magnificazione ottenuta dal laparoscopio, la maggiore accuratezza nella dissezione dei piani anatomici hanno infatti come conseguenza una notevole precisione nell’emostasi chirurgica intraoperatoria, ottenibile anche per uteri di notevoli dimensioni. Tutte le altre complicanze prese in considerazione risultano equamente distribuite nei due gruppi e anche il tempo di degenza ospedaliera e di recupero del benessere a casa risultano sovrapponibili, proprio a dimostrazione di una fattibilità di questo tipo di intervento chirurgico.
Per raggiungere risultati così ottimisti sicuramente l’esperienza del chirurgo è un fattore fondamentale. Tutti gli studi che hanno valutato l’effetto della learning curve sull’esito degli interventi chirurgici mostrano come 30 sia il numero necessario per ottenere dei risultati soddisfacenti, ma oltre alla bravura-esperienza del chirurgo va considerata l’organizzazione della sala operatoria, e quindi del personale di sala, indirizzati verso questo tipo di chirurgia. La chirurgia laparoscopica, specialmente con l’aumentare della indicazioni chirurgiche, necessita di un personale di sala motivato e istruito in maniera tale da ridurre i tempi operatori che sono il principale “tallone d’Achille” di questo tipo di chirurgia; solo in questo modo infatti si potranno godere dei benefici offerti dalla chirurgia laparoscopica anche per quelli interventi che tradizionalmente sono eseguiti per via laparotomica. Non ha senso infatti, come è stato criticato anche da altri illustri autori, valutare i risultati dell’isterectomia laparoscopica prendendo in esame 920 isterectomie laparoscopiche eseguite in 30 centri universitari o ospedalieri: significa questo che ogni centro in media ha eseguito solo 30.6 interventi, troppo pochi per un singolo centro per poter garantire una learning curve capace da potersi confrontare con anni di esperienza per la via addominale o vaginale. In uno studio francese del gruppo di Clermon-Ferrand infatti è stato notato come paragonando i risultati delle TLH eseguite tra il 1989 e il 1995 e quelle eseguite tra il 1996 e il 1999, il tasso di conversione alla laparotomia è sceso dal 4.7% al 1.4%, l’incidenza di complicanze maggiori dal 5.6 % al 1.3% e il tempo operatorio da 115 minuti a 90 minuti.
L’esperienza chirurgica, l’organizzazione della sala operatoria e la predisposizione mentale del chirurgo e del personale di sala possono quindi garantire dei tassi di successo notevoli per la TLH, anche quando le indicazioni preoperatorie sembravano indicare più idoneo un approccio diretto verso la laparotomia. Con l’esperienza chirurgica infatti le complicanze postoperatorie e i tempi operatori si sono ridotti notevolmente negli ultimi anni fino a livelli paragonabili a quelle della laparotomia, conservando i vantaggi della laparoscopia.

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* Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
° Ospedale Sacro Cuore Don Calabria Negrar (Vr)