Fivet dopo 40 anni: nuove strategie terapeutiche



FIVET DOPO I 40 ANNI: NUOVE STRATEGIE TERAPEUTICHE

Adolfo Allegra, Angelo Marino, Gabriella Rizza, Cristina Bono

INTRODUZIONE
Ottenere una gravidanza mediante tecniche di procreazione medicalmente assistita, in donne di età superiore ai 40 anni, è uno dei più grandi ostacoli che il medico della riproduzione si trova ad affrontare. D’altro canto, il numero di coppie in cui la donna ha più di 40 anni e che richiedono un consulto per infertilità è in costante aumento.
Il trend culturale e sociale del procrastinare il momento del matrimonio e conseguentemente la prima gravidanza (in un trentennio l’età media alla prima gravidanza si è spostata dai 26.5 ai 30 anni) è ancora assolutamente dominante e non si prevedono, almeno a medio termine, delle sostanziali inversioni di tendenza.
Il medico della riproduzione si trova quindi sempre più spesso di fronte all’impossibilità di potere rispondere in maniera adeguata alla domanda di "salute riproduttiva" che gli viene posta.
L’ISTAT, nell’Annuario Statistico Italiano del 2000, ha rilevato che le donne italiane tendono a procrastinare nel tempo le scelte riproduttive, ancor più di quasi tutte le donne dell’Unione Europea: l’età media del matrimonio è di 28 anni contro una media europea di 27,1 anni; l’età della prima gravidanza è in media, come detto, di 30 anni contro i 29 delle donne europee.
Accanto a tali osservazioni, si è parimenti assistito ad un incremento significativo della richiesta di prestazioni sanitarie nel campo dell’infertilità, dimostrato dal fatto che, negli Stati Uniti, da circa 600.000 visite all’anno del 1968 si è passati ai 2.000.000 all’inizio degli anni ’80. Questo trend continua ad essere in ascesa se è vero che negli ultimi dieci anni il numero di donne che hanno usufruito di prestazioni mediche per sterilità è aumentato del 28%! Ciò indica chiaramente una sempre maggiore attenzione per i problemi dell’infertilità, ciò che è segno sicuramente di maggiore consapevolezza delle possibilità terapeutiche, ma anche espressione di una maggiore incidenza dei problemi d’infertilità, in primis da ricondurre appunto allo spostamento in avanti del tempo riproduttivo.
È unanimemente accettato che la riduzione della capacità riproduttiva nella donna inizi intorno ai 35 anni, con un progressivo e considerevole calo, fino al completo esaurimento della funzionalità ovarica dopo i 42 anni. È interessante notare tra l’altro che il completo annullamento della capacità riproduttiva nella donna precede di circa 10 anni il momento della menopausa. Si può dire che avrà un problema di infertilità circa un terzo delle donne che rimandano la gravidanza dopo i 35 anni e almeno la metà di quelle che la rimandano dopo i 40. All’avanzare dell’età della donna, infatti, si possono identificare almeno tre fattori alla base della riduzione della fertilità:

  • la riduzione del patrimonio ovocitario;

  • il peggioramento della qualità degli ovociti;

  • l’incremento del tasso di abortività.


  • La riduzione del patrimonio ovocitario
    La deplezione del patrimonio follicolare è tempo-dipendente. Infatti, la gonade femminile, a differenza di quella maschile, è costituita da un numero finito di unità follicolari e quindi di cellule uovo: ciò significa che, nella donna, esiste un patrimonio riproduttivo "predeterminato" che è soltanto suscettibile di un irreversibile depauperamento. Infatti, nella nostra specie, le mitosi degli ovogoni, cellule germinali la cui produzione avviene esclusivamente durante la vita fetale, si esauriscono completamente alla nascita. Inoltre, dal periodo fetale alla pubertà si realizza un vero e proprio tracollo del patrimonio follicolare (da 8.000.000 circa a poco più di 400.000 unità follicolari).
    È nota, peraltro, l’esistenza di una soglia critica di unità follicolari al di sotto della quale vi è una riduzione importante della potenzialità riproduttiva della donna. Si tratta della cosiddetta riserva ovarica, ovvero del patrimonio follicolare residuo, specifica per ciascuna età e per ciascuna donna. A questo proposito, dobbiamo puntualizzare che la frequenza di “poor responders”, ovvero di pazienti che non rispondono in maniera adeguata ai trattamenti di stimolazione, stimata nel 10% della popolazione generale, è grandemente aumentata nelle pazienti con più di 40 anni.
    Occorre ribadire, tuttavia, che la capacità delle ovaie di rispondere ai trattamenti farmacologici di stimolazione non è una funzione meramente cronologica ma anche biologica; infatti, la riserva ovarica, che subisce, come già più volte affermato, un’inarrestabile riduzione con l’età, maggiormente dopo i 35 anni, è pur sempre espressione del substrato genetico-biologico individuale.
    È necessario allora disporre, anche per le pazienti over 40, di strumenti o tests predittivi della funzionalità ovarica, espressione della quantità residua di follicoli. Sebbene una recentissima review concluda affermando che nessuno dei numerosi test oggi disponibili ha un impatto rilevante nel predire il successo di un ciclo IVF (1), tuttavia alcuni markers hanno un alto valore predittivo sulla riserva ovarica. In particolare, il dosaggio dell’FSH al 2° o 3° giorno del ciclo (2), l’inibina B (3), l’Anti-Müllerian Hormone, AMH (4), la conta dei follicoli antrali in fase follicolare precoce (5) ed il volume ovarico (6) rappresentano, ad oggi, i più accreditati markers di funzionalità ovarica.
    Da queste poche battute risulta chiaro allora che la deplezione del patrimonio follicolare, certamente età-dipendente, è tuttavia diversa per ciascuna donna, per cui anche una paziente con più di 40 anni può ancora avere una “buona” riserva ovarica; ciò però non aggiunge nulla alle sue probabilità di concepimento che rimangono ugualmente molto ridotte. Si può quindi affermare che la presenza di un buon numero di follicoli residui, anche ad età estreme della vita riproduttiva, è una condizione necessaria ma da sola non sufficiente per ottenere una gravidanza.

    Il peggioramento della qualità degli ovociti
    Dei tre meccanismi citati, certamente il peggioramento della qualità ovocitaria rappresenta il fattore cardine. È stato infatti dimostrato che in donne di età ³41 anni con valori di FSH normali al 3° giorno del ciclo, il "poor response rate" e la qualità embrionaria sono risultati nettamente peggiori che in donne di età<41 anni ma con alti valori di FSH (7).
    L’età rappresenta, quindi, un fattore predittivo negativo indipendente sulla possibilità di ottenere una gravidanza in misura addirittura maggiore rispetto all’FSH dosato al 3° giorno del ciclo, che, ribadiamo, costituisce uno degli “strumenti” endocrini più precisi per lo studio della riserva ovarica. Entrambe le variabili devono, pertanto, essere tenute in attenta considerazione.
    È utile quindi sottolineare ancora una volta che un valore di FSH normale in una donna di età superiore ai 40 anni (discordanza tra età biologica ed età cronologica), se è, di per sé, un fattore prognostico positivo per la risposta ovarica all’eventuale stimolazione ormonale, non giustifica alcun atteggiamento ottimistico sull’esito del ciclo e sulla possibilità di una gravidanza clinica, così come è stato tra l’altro dimostrato dal lavoro già citato di Van Rooij (7).
    Varie ipotesi sono state formulate per spiegare l’etiologia della ridotta qualità ovocitaria età-correlata. Quella più accreditata è la cosiddetta “production line hypothesis”, per cui la qualità degli ovociti è determinata durante la vita fetale; gli ovociti “migliori” sono ovulati prima, per cui verso il tempo ultimo della vita riproduttiva rimangono gli ovociti di peggiore qualità (8, 9).
    Un’altra ipotesi è basata sulla dimostrazione di un’alterazione della normale microvascolarizzazione, età-dipendente, attorno al follicolo dominante con riduzione dei livelli di ossigeno nel fluido follicolare (10, 11).

    Tutto questo si ripercuote sull’ovocita, che come sappiamo è bloccato allo stadio di diplotene della prima divisione meiotica. Come conseguenza si ha, quindi, un aumento delle non disgiunzioni meiotiche con conseguenti aneuploidie.
    In particolare i meccanismi che regolano il normale assemblaggio cromosomico al fuso meiotico sono significativamente alterati nelle donne di età avanzata come osservato da Volarcik nel 1998 (12). Risultati analoghi sono riportati in uno studio condotto da Battaglia nel 1996 (13) in cui si valutavano gli ovociti di due gruppi di donne (20-25 anni e 40-45 anni, rispettivamente) e si è evidenziato come nel gruppo delle donne di maggiore età, il 79% degli ovociti presentava alterazioni cromosomiche alla seconda disgiunzione meiotica contro solo il 17% di quelli delle donne più giovani.
    Questi dati dimostrano quindi quanto complesso sia offrire delle risposte terapeutiche efficaci alla domanda di salute riproduttiva di queste pazienti. Si tratta di processi fisiologici rispetto ai quali l’azione del medico è davvero molto limitata; probabilmente la ricerca dei prossimi anni verterà sull’identificazione, selezione (in parte già in atto) ed impiego dei gameti non aneuploidi, in modo tale da ridurre l’effetto della alterata qualità ovocitaria sull’esito dei cicli IVF.

    L’incremento del tasso di abortività
    A dimostrazione ulteriore del forte impatto delle alterazioni cromosomiche ovocitarie sulle possibilità di concepimento, c’è da sottolineare che il rischio di aborti spontanei clinicamente diagnosticati aumenta dal 10% circa fino ai 30 anni al 18% verso i 35 anni e al 54% subito dopo i 40 anni; più del 50% degli aborti spontanei oltre i 35 anni d’età è dovuto ad anomalie cromosomiche (trisomie autosomiche), l’incidenza delle quali aumenta con l’età della madre.
    Tali aneuploidie embrionarie (60% di embrioni aneuploidi in donne con età media 39 anni) sono evidentemente diretta conseguenza delle aneuploidie ovocitarie, con un tasso di aborti precoci molto elevato in embrioni provenienti dalla superovulazione per IVF (14).
    Come risulta chiaro da questa prima analisi, il decremento delle potenzialità riproduttive nella donna è certamente correlata a fattori ovarici (15, 16, 17, 18) non essendo l’endometrio, in donne di età avanzata, un fattore limitante la possibilità di ottenere una gravidanza (come si nota, d’altronde, nei cicli di ovoricezione).
    Partendo da queste premesse, ci proponiamo nella presente trattazione di chiarire e di indicare le opzioni terapeutiche che possano fornire le maggiori possibilità di successo per le donne con più di 40 anni che desiderano coronare il sogno della maternità.

    LE OPZIONI TERAPEUTICHE
    La scelta della terapia più efficace per ottenere una gravidanza in una donna di età superiore ai 40 anni costituisce come già precedentemente affermato un problema di difficile risoluzione.
    In primis, è necessario chiarire se le tecniche di fecondazione assistita, considerate nel loro insieme, sono in grado di compensare il declino inarrestabile della fertilità con l’età.
    Dare una risposta a questo interrogativo in realtà è tutt’altro che semplice, soprattutto per la difficoltà di creare un modello sperimentale adatto allo scopo. È vero che disponiamo di modelli matematico-statistici che consentono di valutare l’impatto di diverse variabili sulla fertilità ma tali modelli presentano dei margini di approssimazione assolutamente non trascurabili. Si tratta, tuttavia, dell’unico strumento scientifico di cui possiamo avvalerci per districare il groviglio di dati ed informazioni più o meno validi che circondano il problema della riduzione della fertilità con l’età.
    È dimostrato che se una donna ha compiuto il 40° anno d’età la probabilità di concepire è del 25% ridotta rispetto ad una donna di 35 anni. In queste condizioni, non considerando nessuna altra causa di infertilità, i trattamenti ed in particolare le tecniche di fecondazione assistita permettono il recupero di solo il 7% rispetto al 25% di perdita complessiva di fertilità.
    Le tecniche di fecondazione assistita, considerate nel loro insieme, consentono quindi il recupero di meno del 30% delle possibilità di gravidanza perse quando una donna ha più di 40 anni. Ovviamente, questi dati fanno riferimento all’impiego degli ovociti della paziente, dato che il ricorso agli ovociti di una donatrice, tecnica non consentita in Italia dal 10 marzo 2004, permette, in pratica, il completo ripristino della potenziale fertilità indipendentemente dall’età della paziente.
    Il trattamento di ovoricezione è in grado di assicurare un tasso di gravidanza di circa il 50% al primo tentativo, a conferma dell’assoluta ininfluenza del fattore endometriale quale ostacolo alla gravidanza, nelle donne con più di 40 anni.
    L’evidenza che in meno del 30% dei casi i trattamenti per l’infertilità riescono a recuperare la fertilità perduta costituisce un punto di snodo fondamentale; occorre aggiungere però che questo dato potrebbe essere migliorato se si ottenesse una riduzione significativa del tempo medio (calcolato in 2 anni) che una coppia, anche quando la donna ha più di 40 anni, impiega prima di accedere compiutamente ad una terapia per l’infertilità. Ciò costituisce chiaramente un impegno per tutti gli operatori di medicina della riproduzione, perché da ciò deriva probabilmente la migliore strategia terapeutica "pro fertilitate" in questo gruppo di pazienti a pessima prognosi.
    La prima grande questione che, a questo punto, occorre chiarire è la scelta di quale tecnica utilizzare; in particolare è utile valutare se sottoporre le pazienti a tecniche di fecondazione in vivo o in vitro; tale valutazione risulta molto utile, considerando i bassi tassi di successo qualunque sia la tecnica utilizzata; si stima infatti che il tasso di gravidanze ottenuto mediante ICSI sia intorno al 12.3% (19, 20).
    Tale analisi è ancora più utile in Italia, dove la legge 40, ponendo il limite dei tre ovociti da fecondare, ha drasticamente, ulteriormente, ridotto le possibilità di gravidanza nelle pazienti over 40, tant’è vero che molti centri, invece di proporre un’IVF "età correlata", suggeriscono alla donna dei cicli di inseminazione con superovulazione ("Artificial insemination with husband" AIH), procedura che permette a tutti gli ovociti prodotti di potere essere fecondati in vivo. Infatti, se si ottengono sei ovociti maturi, si ha teoricamente il doppio delle probabilità di concepire che non con l’IVF "all’italiana". È pur vero che in corso di superovulazione alcuni ovociti del pool maturato non sono di buona qualità ma, per converso, la tecnica AIH è ripetibile ogni mese, più ben accetta dalle pazienti e certamente anche più semplice e meno dispendiosa.
    Inoltre, partendo sempre dall’assunto della bassa efficacia di qualunque trattamento, non si può non tenere conto del principio della gradualità e della minore invasività delle tecniche in vivo rispetto a quelle in vitro che sono oltretutto più costose e gravate da rischi che, seppur bassissimi (l’età in questo caso rappresenta un fattore di protezione), non devono sicuramente essere trascurati.
    È del 2001, però, la dimostrazione forte della maggiore efficacia, in termini di nascite, della fecondazione in vitro rispetto alle inseminazioni (15.5% e 3.2% rispettivamente, p=0.0007) in uno studio retrospettivo che ha preso in considerazione 401 cicli eseguiti in donne di età superiore ai 40 anni (21).
    La fecondazione in vitro rappresenta, quindi, la procedura di scelta nel trattamento delle coppie infertili in cui la partner femminile ha un’età superiore ai 40 anni. Infatti, se è vero che le tecniche in vitro non risolvono il problema cruciale della riduzione della fertilità dovuta all’età, tuttavia, assicurano le maggiori probabilità di fertilizzazione per singolo tentativo, anche perché viene superato un ulteriore fattore potenzialmente limitante qual è quello tubarico.
    Inoltre potere disporre di una metodica come l’Assisted Zona Hatching che è già risultata più efficace nelle donne di età superiore ai 40 anni (22, 23) costituisce di per sè un motivo estremamente valido per effettuare una fertilizzazione in vitro, così come la possibilità di potere agire sulla variabile "numero di embrioni da trasferire".
    Infatti, la possibilità di poter trasferire un alto numero di embrioni modifica il tasso di gravidanza per ciclo di stimolazione, senza incrementare il tasso di gravidanze multiple; infatti in pazienti di età compresa tra i 40 e i 43 anni, quando sono disponibili per il trasferimento almeno 4 embrioni, il tasso di gravidanza è del 17,8% contro il 2,4 % dei cicli in cui vengono trasferiti meno di 4 embrioni (p=0.002). Questa differenza così importante non si osserva più dopo il compimento del 44° anno di età, quando il tasso di gravidanza è dell’1,4%, a prescindere del numero degli embrioni trasferiti (24).
    È da segnalare comunque che in Italia, dall’entrata in vigore della legge 40 del 2004, è vietato inseminare più di tre ovociti; quindi non solo con tre ovociti inseminati risulta difficilissimo in una donna con più di 40 anni ottenere tre embrioni e comunque mai, ovviamente, si potranno trasferire in utero più di 3 embrioni per ciascun ciclo di stimolazione. In tal modo, la legge 40 vanifica ogni possibilità di implementazione dei tassi di successo che dipende, anche e forse soprattutto, in queste pazienti, dal numero di embrioni che si trasferiscono.
    Ma la legge ha determinato anche degli altri effetti estremamente negativi nel gruppo di pazienti di età avanzata, effettivamente le più colpite dalle disposizioni.
    Nel periodo ante-legem, infatti, la possibilità di disporre di un maggior numero di embrioni, adeguato alle caratteristiche della coppia, consentiva di sottoporre gli embrioni medesimi, nelle pazienti con più di 38 anni, alla diagnosi genetica preimpianto (PGD) per lo screening delle aneuploidie, dato che, come già affermato, più del 60% degli embrioni ottenuti in una coppia in cui la donna ha compiuto 40 anni, presentano alterazioni cromosomiche (14, 25, 26 ).
    Comunque, a prescindere da disposizioni legislative più o meno punitive e dalle nuove possibilità tecnico-scientifiche, le tecniche di fecondazione assistita in vitro, seppure rappresentando la migliore scelta terapeutica per le coppie in cui la partner femminile ha superato i 40 anni, si associano comunque a tassi di successo molto bassi.
    Allora, è fondamentale implementare questi tassi di successo cercando di ottimizzare le strategie farmacologiche di induzione della stimolazione ovarica e di soppressione ipofisaria. Anche riguardo quest’argomento, molte questioni rimangono dibattute, a cominciare dalla dose di farmaco da impiegare in corso di superovulazione controllata.
    In realtà, la scelta della quantità di farmaco da somministrare giornalmente dipende in primis dalla riserva ovarica della paziente (infatti, il valore dell’FSH al terzo giorno del ciclo mestruale è cruciale per la stimolazione successiva). In presenza di una buona riserva ovarica, anche in una donna con più di 40 anni, non ha senso somministrare un quantitativo di farmaco superiore a quella che è la dose standard (225-300 UI).
    In caso, invece, di scarsa riserva ovarica o di risposta ovarica insufficiente al dosaggio convenzionale, l’approccio clinico più corretto consiste, ovviamente, nell’incrementare la dose fino ad un massimo di 450 UI, anche se diversi studi, prospettici (27) e retrospettivi (28), non hanno evidenziato alcun miglioramento nella risposta ovarica e tanto meno nei tassi di gravidanza.
    Per ciò che concerne l’importanza cardine della soppressione del picco prematuro di LH nei cicli di fecondazione assistita è stato detto praticamente tutto e per tutte le fasce d’età. Chiaramente la necessità di una soppressione precisa del picco prematuro di LH è ancora più avvertita nelle pazienti over 40 che si confrontano di partenza con possibilità di gravidanza davvero ridotte.
    Fino a qualche anno fa, l’impiego dell’analogo agonista del GnRH ha rappresentato l’unica arma terapeutica per ottenere tale risultato. Ma quale protocollo di stimolazione impiegare per ottenere i migliori risultati clinici, considerando che l’agonista utilizzato con uno schema "long protocol" comporta sempre un aumento della dose di gonadotropine richiesta, conseguenza della resistenza ovarica iatrogena agonista indotta?
    In uno studio del 2005, Sbracia e coll. hanno messo a paragone i risultati ottenuti in donne over 40 sottoposte a due differenti protocolli terapeutici: il "long protocol" (in cui la somministrazione dell’agonista del GnRH inizia il 21° giorno del ciclo mestruale precedente l’inizio della stimolazione) e lo "short protocol" (in cui la somministrazione dell’agonista inizia il primo giorno della mestruazione), dimostrando come nel primo gruppo di pazienti si recupera un numero significativamente maggiore di ovociti, si ottiene un numero maggiore di embrioni ed un più alto tasso di impianto e di gravidanze (29).
    La stimolazione mediante il long protocol determina risultati significativamente migliori in termini di numero di embrioni e tassi di gravidanze anche rispetto all’ultra short protocol (l’agonista viene somministrato il 2°, 3° e 4° giorno del ciclo mestruale) (17).
    Tuttavia, nelle pazienti poor responders che con il long protocol falliscono nell’ottenere un’adeguata crescita multifollicolare, a causa dell’eccessiva soppressione, conviene utilizzare un protocollo che determini un effetto "flare-up" (short od ultrashort) (30). I regimi farmacologici "short and ultrashort", però, se da un lato permettono di sfruttare l’effetto "flare-up" (potente dismissione delle gonadotropine endogene nelle 48 ore successive all’inizio della somministrazione dell’agonista), dall’altro possono indurre anche un massivo rilascio di androgeni, con conseguente riduzione della qualità ovocitaria e dei tassi di gravidanza, se paragonati al "long protocol".
    Proprio per massimizzare gli effetti positivi del regime "flare-up", che rappresenta una valida alternativa, in caso di fallimento di un "long protocol", alcuni autori hanno proposto l’impiego di "micro-dosi" dell’agonista del GnRH ("micro-dose flare-up protocol"), anche se ancora non è chiaro quale sia la dose minima di farmaco capace di indurre il rilascio delle gonadotropine.c Infatti, i risultati desumibili dagli studi pubblicati (tutti non randomizzati) sono controversi (31, 32, 33).
    Un’altra alternativa al classico "long protocol" è quella di impiegare dosi più basse di farmaco o di anticipare la cessazione della somministrazione ("GnRH agonist stopped protocol") al primo giorno del ciclo o al giorno d’inizio delle gonadotropine. Anche in questo caso i diversi studi pubblicati non mostrano risultati univoci (34, 35, 36, 37).
    Da questa preliminare analisi della letteratura, il long protocol sembra rappresentare il migliore sistema di controllo della funzione ipofisaria in corso di induzione della superovulazione controllata, anche se con dati non univoci.
    Negli ultimi anni, una nuova classe di farmaci si è, però, imposta all’attenzione dei ricercatori, per la semplicità d’uso, l’efficacia e la maneggevolezza. Si tratta degli antagonisti del GnRH, farmaci che somministrati in corso di stimolazione determinano una soppressione immediata del picco prematuro di LH. In realtà, dalla comparazione dei risultati clinici dei cicli di stimolazione che prevedevano l’impiego dell’agonista o dell’antagonista rispettivamente, sono derivati dati contraddittori (38, 39, 40, 41).
    Il motivo per cui l’impiego degli antagonisti appare controverso nelle pazienti over 40 dipende probabilmente dal fatto che è difficile temporizzare l’inizio del trattamento e, poi, in seconda istanza, per l’inibizione competitiva, completa ed immediata del recettore per il GnRH che questi farmaci determinano. Il blocco immediato del rilascio delle gonadotropine determina, infatti, come conseguenza, una riduzione improvvisa delle concentrazioni di LH (che in circa un terzo dei cicli diventano indosabili) ed estrogeni in circolo, con ripercussioni negative sulla crescita endometriale. Ovviamente, le concentrazioni di FSH non risentono dell’effetto di soppressione per la somministrazione esogena.
    In un ciclo naturale, l’LH è fondamentale per mantenere una steroidogenesi ed uno sviluppo follicolare adeguati, inducendo la crescita e la differenziazione delle cellule della granulosa; al contempo, determina la produzione dell’epidermal growth factor (EGF) nelle cellule tecali, promuovendo indirettamente la sintesi degli estrogeni, con ripercussioni importanti sullo sviluppo endometriale e sulla qualità ovocitaria.
    Ciò che si desume dall’analisi della fisiologia è che le concentrazioni di LH si mantengono basse nella fase follicolare precoce per poi subire un costante incremento nella fase follicolare intermedia e tardiva. Probabilmente, il segreto della stimolazione ormonale nelle pazienti over 40 deriva da un canto dalla capacità di modulare la somministrazione di LH e dall’altro di evitare un reclutamento follicolare sproporzionato rispetto alle reali capacità endocrine ovariche, reclutamento che, come noto, comporta una non buona qualità della gran parte degli ovociti ottenuti.
    Ci si rende conto allora che i protocolli oggi più in uso soffrono di approssimazioni piuttosto cospicue: così per quanto concerne l’agonista lo short protocol, per effetto del flare up, determina un incremento dei livelli di LH all’inizio della stimolazione proprio quando dovrebbero mantenersi bassi perché possono inficiare la qualità degli ovociti; di contro il long protocol determina o un reclutamento follicolare iniziale eccessivo in pazienti di per sé con una scarsa riserva ovarica o, più frequentemente, una maggiore resistenza gonadica alle gonadotropine in pazienti già di per sé a "bassa sensibilità". D’altro canto, l’impiego degli antagonisti, che di solito si realizza alla fine della stimolazione, azzera l’LH endogeno esattamente nel momento in cui dovrebbe svolgere la sua funzione nella maturazione ovocitaria.
    Il versante sul quale oggi si può più compiutamente intervenire, probabilmente, è rappresentato proprio dall’ottimizzazione dell’impiego degli antagonisti, magari aggiungendovi microquote di LH ricombinante. Infatti, per la maneggevolezza e la possibilità di evitare una lunga soppressione, gli antagonisti possono realmente ambire al ruolo di "farmaci ideali" nel gruppo delle pazienti over 40.
    Recentemente è stato pubblicato un lavoro che confronta lo short protocol (agonista del GnRH + rFSH) ad una modalità di stimolazione che impiega l’FSH insieme all’antagonista del GnRH e all’LH (l’LH e l’antagonista vengono somministrati in contemporanea quando almeno un follicolo ha raggiunto i 14 mm di diametro) in un gruppo di pazienti a cattiva prognosi.
    Tale studio mostra un incremento del numero di ovociti maturi recuperati e del tasso di fertilizzazione nel gruppo dell’antagonista + LH, indicando un significativo miglioramento della qualità e della maturazione ovocitaria, anche se ciò non si è tradotto in un incremento statisticamente significativo del tasso di gravidanza (42). Va precisato, tuttavia, che questo lavoro non riguardava in modo specifico le pazienti over 40 ma una classe di pazienti più ampia, tutte comunque "poor responders".
    In realtà, in un altro lavoro, si osserva come la somministrazione dell’LH insieme all’antagonista si associ ad un trend positivo in termini di tasso di impianto, anche se con risultati non statisticamente significativi, in pazienti con meno di 40 anni. Di contro, nella popolazione di ultraquarantenni il numero di ovociti recuperati ed il tasso di fertilizzazione sono significativamente più bassi quando viene somministrato LH (43). La spiegazione di questo inatteso risultato è da imputare, secondo gli autori, al fatto che, a causa dell’incremento della quota stromale nelle ovaie delle ultraquarantenni, le microquote di LH endogeno sarebbero sufficienti ad esplicare l’azione biologica. Le quote di LH somministrate dall’esterno avrebbero un effetto negativo perché responsabili dell’alterazione del precario equilibrio endocrino stabilitosi.
    Occorre tuttavia sottolineare che quest’ultimo studio è retrospettivo e pertanto dotato di un potere statistico nettamente inferiore rispetto agli studi prospettici randomizzati.

    Una strategia completamente diversa, se non addirittura alternativa, può essere rappresentata dall’esecuzione di una tecnica di fecondazione in vitro in ciclo spontaneo, utilizzando quindi l’unico ovocita "naturalmente" prodotto, anche se i risultati desumibili dai pochi studi condotti, non sono, ancora una volta, univoci (44, 45, 46, 47). Se alcuni studi (44, 45, 47) indicano, infatti, un tasso di gravidanza accettabile in ciclo naturale, quello di Kolibianakis (46) riporta dei risultati davvero deludenti, anche se le concentrazioni basali di FSH delle pazienti incluse nello studio erano intorno a 20 mUI/ml! Selezionando tra le pazienti over 40, invece, quelle con FSH normale o border-line, l’impiego dell’ovocita naturalmente prodotto in ciclo spontaneo potrebbe essere considerato come una possibilità concreta, alla luce del fatto, incontrovertibile, che la selezione del follicolo dominante conduce alla crescita dell’ovocita di per sé con le migliori caratteristiche.
    È altresì da sottolineare però l’alta percentuale di mancata effettuazione del transfer (circa il 50% delle pazienti) cui una strategia terapeutica di tal fatta si associa (9).
    Anche alla luce di questi dati, non appare per nulla peregrino riconsiderare l’ipotesi del ciclo naturale aggiungendo l’antagonista (0.25 mg) nelle ultime fasi della stimolazione (quando si è già selezionato il follicolo dominante ed ha raggiunto almeno i 14 mm di diametro) ed al contempo, in relazione all’abbattimento immediato della produzione estrogenica indotta appunto dall’antagonista, somministrando piccole dosi (75 UI pro die) di FSH ricombinante (9).
    Val la pena soffermarsi anche sul fatto che una tecnica di fecondazione in vitro in ciclo spontaneo (con stimolazione minima) è assolutamente costo-efficace: 1550€ contro 6050€ dei cicli stimolati con alti dosaggi di gonadotropine (48).
    Alla fine di questa breve disamina dello stato dell’arte, che ovviamente non ha nessuna pretesa di esaustività, e delle possibili strategie terapeutiche future, possiamo trarre la conclusione che ottenere una gravidanza dopo i 40 anni, con i propri ovociti, ancora oggi è una scommessa. Come si vede, questa conclusione era già contenuta nelle premesse che avevamo inizialmente considerato. Sarebbe allora opportuno per tutti comprendere che la medicina può tentare di migliorare dei fenomeni biologici ma non può modificare la storia naturale degli eventi o addirittura invertirne il corso.

    Bibliografia
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    Unità di Medicina della Riproduzione
    Andros Day Surgery - Palermo
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